Intervista di John More ad Alfredo Balducci

 

 

 

 

 

Prima parte: “Lo scrittore e il testo teatrale”

 

 

 

John More: Iniziamo spiegando ai nostri lettori (JMIAS.com) qual è il ruolo dello scrittore teatrale nella nostra società... naturalmente se non hai nulla in contrario.

 

Alfredo Balducci: Naturalmente no. Sono felice di trattare questo argomento. Tutta la mia vita è stata dedicata al teatro, che ha rappresentato il bilancio della mia esistenza. Risultato: una montagna di copioni e diverse rappresentazioni, alcune anche molto importanti, non tante però come avrei desiderato e, a giudizio di critici e spettatori, avrei meritato. Ma non si può lottare da soli contro tendenze e abitudini.

Oggi i palcoscenici italiani sono poco disposti, anzi pochissimo, a ospitare autori italiani contemporanei. Le solite ragioni: i costi sono alti e non si può rischiare con nomi sconosciuti (o quasi). E allora via con i classici, le riduzioni teatrali di romanzi famosi, qualche autore straniero best-seller al suo paese, le capriole dei registi o degli attori per mettere in scena uno spettacolo purchessia.

Anche all’estero esistono gli stessi problemi, tuttavia la figura dell’autore contemporaneo non è stata cancellata, com’è accaduto in Italia, e neppure confinata nell’ambito di piccole sale di cui nessuno si accorge, o abbandonata ai gruppi amatoriali.

L’impossibilità di venire rappresentati decorosamente ha sfoltito le fila degli autori di teatro, molti dei quali non hanno osato muoversi dal campo editoriale in cui già si trovavano, mentre altri si sono dedicati al cinema o alla televisione. C’è chi ha resistito a questo sfacelo. In pochi per la verità, anzi pochissimi. Io sono uno di quei pochi (l’ultimo lavoro che ho scritto: “Un caso difficile” - senza alcuna speranza di rappresentazione - risale a qualche settimana fa).

Perché tanta fedeltà a un mestiere così avaro di gratificazioni? Probabilmente perché scrivere commedie è una cosa che so fare meglio di altre e non mi andava di dovere smettere, e poi perché ho sempre pensato che la crisi attuale sarebbe stata passeggera, una delle tante crisi attraversate dal teatro nella sua vita millenaria. Non tenevo conto, però, che tra una crisi e la sua soluzione, nei vari paesi, sono spesso trascorsi alcuni secoli. Il che mette fuori gioco ogni mia residua speranza.

 

J.M.: La tua analisi delle attuali condizioni del teatro in Italia, è molto pessimistica. Davvero un autore di teatro ha perduto ogni possibilità di sperare?

 

A.B: Al contrario, “spes ultima dea”, vogliamo rinunciare anche a quella? Io la speranza ho cercato di aiutarla come ho potuto, inondando di copioni teatri, registi e attori, prima di tutto. Poi esercitando una rigorosa economia sui lavori che andavo scrivendo: niente cambiamenti di ambiente, ma scena fissa per l’intero lavoro, riduzione all’osso delle presenze in palcoscenico, quattro o cinque personaggi al massimo, preferibilmente solo due o addirittura monologhi.

 

J.M.: Quali sono le prime tecniche fondamentali che un aspirante scrittore dovrebbe imparare prima di affrontare il mondo letterario?

 

A.B.: Sono tecniche derivanti soprattutto da un’assenza di presunzione. L’umiltà è la fondamentale caratteristica di un nuovo autore.

 

J.M.: Che cos’è un testo teatrale?

 

A.B.: Per parlare di un testo teatrale bisogna parlare del dialogo. Perché il dialogo nell'opera drammatica è l'opera drammatica stessa, che non è concepibile senza la presenza del dialogo: elemento principale della storia detta, gridata o sussurrata da parte di due attori sulle tavole di un palcoscenico, o da un qualunque altro spazio usato per rappresentazioni. Si può fare spettacolo anche senza dialogo: con scenografie, musiche e canzoni, azioni mimiche (anche se in questo caso non è escluso un accenno di colloquio per mezzo delle espressioni del viso e dei gesti). Si può fare teatro anche con un monologo, perché in questo caso c'è sempre la presenza immaginaria di un interlocutore muto che può essere la propria coscienza, il proprio passato, il proprio divenire o altro. Ma noi parliamo dell'opera drammatica che nasce quando l'attore incomincia a scambiare opinioni con il coro, e continua con Eschilo che mette in scena il secondo personaggio, e va avanti con Sofocle che mette in scena anche il terzo. Di qui nasce tutto il teatro che conosciamo, dai classici greci ai testi moderni, che utilizzano il dialogo per narrarci le loro vicende tristi o liete che siano, per commentare le stesse alla luce della loro morale o dei loro principi etici e religiosi.

 

J.M.: Come nasce una storia per un testo teatrale? E come si sceglie l’argomento per cui scrivere?

 

A.B.: Un testo teatrale nasce dall’esame della società in cui viviamo, dall’analisi della sua storia, delle sue idee, dei suoi costumi. Dall’indignazione che ci riempie lo spettacolo delle nostre cattiverie, delle nostre contraddizioni, delle nostre viltà, e, nello stesso tempo, delle nostre azioni meritorie e trascurate, delle nostre virtù umiliate, dei nostri eroismi dimenticati.

 

J.M.: Perché si scrive un testo? Quali sono le vere ragioni? Chi scrive vuole trasmettere un messaggio alla nostra società oppure vuole solo raccontare?

 

A.B.: Un’opera teatrale è sempre un grido di protesta, a volte squillante, altre volte di tono moderato, ora portato da personaggi tragici, ora accennato dai comici di uno spettacolo satirico. Così è stato fin dalla nascita del teatro, da Eschilo ad Aristofane, da Shakespeare a Cechov, da Pirandello a Brecht.

 

J.M.: Che cosa significa scrivere?

 

A.B.: E’ un importante atto di creazione.

 

J.M.: Da dove nasce la passione dello scrittore?

 

A.B.: Davanti ai libri di una biblioteca.

 

J.M.: Quali sono il posto e l’atmosfera migliore per scrivere?

 

A.B.: A casa propria nel silenzio.

 

J.M.: Come si crea una maggiore passione per l’arte dello scrivere? Chi ha in sé questa passione, come può coltivarla per vederla crescere?

 

A.B.: La passione si crea e si coltiva con lo studio dei capolavori dei maestri.

 

J.M.: A che cosa pensa uno scrittore prima di cominciare a scrivere? Da dove vengono le ispirazioni?

 

A.B.: Le ispirazioni vengono per caso. Su queste bisogna lavorare.

 

J.M.: Come si costruiscono i personaggi di un testo teatrale e i dialoghi fra di essi?

 

A.B.: Spesso i personaggi dei miei lavori sono proiezioni di me stesso in vicende che vorrei o potrei affrontare. Non rinnego neppure i personaggi negativi, ottenuti violentando il mio carattere, perché la loro esistenza mi permette di effettuare utili contrapposizioni. Del resto, non potrebbe che essere così. Quando scrivo un lavoro sono abituato a portare con me a lungo i suoi protagonisti, a vivere con loro le esistenze che io ho loro imposto. Conto sul vostro silenzio, però. Non vorrei che questa confessione giungesse alle orecchie di mia moglie, specialmente per quanto riguarda un paio di personaggi femminili che mi stanno particolarmente a cuore.

 

J.M.: Parliamo della struttura del testo teatrale… sempre che questa tecnica non costituisca un segreto che non vuoi rivelare.

 

A.B.: Non c’è nessun segreto da custodire. In ogni caso sarebbe un segreto di Pulcinella perché basterebbe leggere un mio lavoro per rendersene conto e impadronirsi del meccanismo. La tecnica che sfrutto si riduce modestamente ad alcuni accorgimenti che, a mio parere, sono fondamentali. Prima di tutto il dialogo. Deve essere scarno e asciutto, nei limiti del possibile, sempre controllato da una recitazione interiore che assicuri tensione, teatralità e assenza di cadute. Brecht ci ha insegnato che a teatro si può dire di tutto, dalla poesia alla filosofia, dalla storia alla cronaca spicciola. Una sola cosa è vietata: annoiare il pubblico. Bisogna divertire lo spettatore, e questo non si ottiene soltanto facendolo ridere, ma soprattutto facendolo pensare e interessare a una vicenda. Per legare il pubblico alla storia che raccontavo ho sempre cercato di farlo partecipare con l’aiuto di una trovata inserita nello spettacolo. Un accorgimento che ha sempre funzionato. Vogliamo controllare?

Incominciamo con uno dei primi lavori che ho scritto, I DADI E L’ARCHIBUGIO: due compagnie di ventura già alleate in un precedente fatto d’armi, non se la sentono ora di scannarsi l’una contro l’altra, nonostante che i rispettivi comandanti, per ragioni personali, sollecitino lo scontro.

IL TRIANGOLO DEL LEONE: una storia di adulterio fra leoni di uno zoo.

L’EQUIPAGGIO DELLA ‘ZATTERA’: un mercante di armi alla ricerca di rivoluzioni e conflitti nei quali esitare la propria merce.

DON GIOVANNI AL ROGO: un Don Giovanni che disprezza le donne e le seduce per punirle.

UN CIELO DI CAVALLETTE: una costruzione drammatica intorno a un delitto che non è avvenuto in un paese che non c’è.

IL VENTO E I GIORNI: uno spettacolo teatrale davanti a un pubblico che non esiste.

LA NUOVA ISOLA: l’equivoco di un santo che battezza dei pinguini scambiandoli per uomini.

UN’IPOTESI SU JEAN-JACQUES ROUSSEAU: il filosofo viene perseguitato per le Memorie che vuole pubblicare e non per la sua attività rivoluzionaria.

L’EREDITA’: il figlio di un famoso illusionista che, alla morte del padre, non riesce a ripetere i suoi numeri.

INCONTRO AL CARROBBIO: entrare nella personalità di un altro può essere comodo fino a un certo punto.

... MA E’ DAVVERO UN LIBERTINO?: bisogna scegliere fra l’innocente fidanzata e l’amante sensuale.

AMILCARE RICOTTI, CAPOCOMICO: una scassata compagnia di attori viene finalmente ingaggiata per recitare a Milano, ma stanno per scoppiare le “Cinque Giornate”.

LABIRINTO: un incontro casuale fra due sconosciuti. Quale è la loro storia e da che parte sta la verità?

IL MARITO IDEALE: un’illusione che aiuta a vivere. Ma è veramente un’illusione?

ELETTRA, CON IL VENTO: “L’Orestea” rivissuta ai nostri giorni.

GRANDANGOLO: una storia racchiusa in scatole cinesi, l’una dentro l’altra.

LUNGA E PROFONDA LA NOTTE: la Rivoluzione Francese è scoppiata ai nostri giorni.

UNA PRIMULA A ELSINOR: la vicenda di Amleto vista attraverso gli occhi di una servetta del castello che s’è segretamente e perdutamente innamorata di lui.

Vogliamo fermarci qui? Mi pare di aver dato numerosi esempi del mio metodo di scrittura. Dovrei anche aggiungere qualcosa sul contenuto dei miei lavori, dove protagoniste sono le contraddizioni in cui viviamo, la denuncia di una società che sempre più si disinteressa dell’uomo, la critica rivolta ai nostri costumi. Ma queste sono idee personali che riguardano la propria coscienza e non hanno nulla a che fare con la drammaturgia.

 

J.M.: Quando e come si sceglie un titolo di un’opera teatrale?

 

A.B.: Di solito il titolo si dà a lavoro ultimato; e non è una cosa facile: a volte trovare un titolo adeguato è quasi più difficile che scrivere il lavoro. Deve essere sintetico, d’effetto e stimolante. Qualche volta viene nel corso della stesura dell’opera, ed è anche capitato (raramente, però) di trovarlo per primo; in questo caso può anche accadere che sia il titolo a condizionare l’intero lavoro.

 

J.M.: Qual è la differenza di un testo scritto per il palcoscenico, la radio ed un romanzo?

 

A.B.: L’utilizzazione di un testo avviene in un secondo tempo. Solo dopo la scrittura si potrà decidere se il testo è adatto per il palcoscenico, per la radio, o anche addirittura – semmai con qualche adattamento – per un romanzo.

 

J.M.: Ci sono delle tecniche particolari che possono aiutare un aspirante scrittore a migliorare il suo stile di scrivere?

 

A.B.: Come dicevo poco fa, l’unico esercizio da fare è quello di studiare i maestri ed impegnarsi a scrivere come “urge” dentro di noi.

 

J.M.: In che modo dovrebbe essere usata l’immaginazione di uno scrittore?

 

A.B.: Il solo pensiero che deve avere davanti a sé uno scrittore è quello di creare qualcosa di valido e di duraturo.

 

J.M.: Quanto è importante avere una buona memoria e una buona visualizzazione per questa attività?

 

A.B.: Un buon ricordo è di grande aiuto per chi scrive.

 

J.M.: Che cosa bisognerebbe fare per tenere la mente sempre allenata?

 

A.B.: Leggere di continuo ed imparare a memoria ciò che interessa.

 

J.M.: Che tipo di libri suggeriresti di leggere a un aspirante scrittore e perché?

 

A.B.: Libri satirici che affrontino la condizione dell’uomo sulla terra. Perché penso che l’ironia e la satira siano la migliore lente d’ingrandimento sulle vicissitudini umane e diano il giusto distacco dalla cruda verità all’artista creatore.

 

J.M.: In che modo si differenzia un “bravo scrittore” da uno “scrittore mediocre”?

 

A.B.: Solo dalla sua umiltà nello scrivere. Essa traspare sempre.

 

J.M.: Come si diventa “bravi scrittori”?

 

A.B.: Non tralasciando mai il lavoro e lo studio.

 

J.M.: E, in realtà, come si diventa scrittore professionista riuscendo anche a mantenersi economicamente solo con questa attività?

 

A.B.: Chi si preoccupa troppo del guadagno in termini economici è spesso portato a trascurare il proprio estro.

 

J.M.: Quali sono gli ostacoli iniziali?

 

A.B.: La non curanza di una critica severa sul proprio lavoro può portare spesso ad una sottovalutazione dei propri difetti (inevitabili, data l’inesperienza). E questo può condurre su strade sbagliate, o addirittura vicoli ciechi.

 

J.M.: Che approccio dovrebbe avere uno scrittore col mondo del lavoro?

 

A.B.: Convincersi che la propria attività, anche se privilegiata, appartiene pur sempre al lavoro umano.

 

J.M.: E che cosa dovrebbe fare per entrare in contatto con gli editori?

 

A.B.: Provando e riprovando, senza scoraggiarsi per i rifiuti ottenuti.

Su questo argomento ho scritto una commedia: “Il pasto dello sciacallo”. Tu sei venuto a sentirne la lettura, ricordi?

 

J.M.: Si, mi ricordo… Come arriva un testo teatrale sugli scaffali delle librerie?

 

A.B.: E’ raro che ci arrivi; e quando capita è un onore riservato a pochi grandi del proprio secolo. L’ambiente principe per un testo teatrale è, appunto, il palcoscenico: lo scaffale della libreria è solo un’ulteriore conferma di un successo già decretato dalle scene a quel testo o al suo autore.

 

J.M.: Quali sono i profitti di uno scrittore?

 

A.B.: Per quanto riguarda la messa in scena è il dieci per cento lordo dell’incasso netto del teatro. La metà se c’è di mezzo un traduttore.

 

J.M.: Come funzionano il “Copyright” e i “diritti d’autore”?

 

A.B.: Sono gli strumenti per garantire – per un certo lasso di tempo, variabile da Paese a Paese – il compenso all’autore di un’opera teatrale.

 

J.M.: Per migliorare le proprie tecniche creative di scrittore ci sono corsi, conferenze, seminari…

 

A.B.: Naturalmente: ce ne sono tanti; e tutto può aiutare e servire all’aspirante scrittore per migliorarsi e indagare dentro se stesso.

 

J.M.: Potresti elencare tre tipi di esercizi pratici e utili per uno scrittore?

 

A.B.: Interrompere a metà una scena e incominciare a scriverne un’altra; prenderne una conosciuta e riscriverla a proprio modo; cambiare i caratteri dei personaggi di un’altra scena ancora. In buona sostanza, esercitarsi a fare e disfare.

 

J.M.: Quali altri consigli daresti a un giovane ragazzo che vorrebbe intraprendere per la prima volta la carriera professionale di scrittore?

 

A.B.: A un giovane che in Italia intendesse seguire questa strada consiglierei la massima prudenza, di valutare bene i lati negativi, il duro lavoro da compiere in silenzio e in solitudine, puntando verso un successo che quasi sicuramente non arriverà mai. Se, nonostante tutto, questo giovane fosse deciso a continuare il cammino, vorrebbe dire che non è stato lui a scegliere questo mestiere, ma che è stato scelto. E allora non mi resta che dargli il benvenuto nell’esigua schiera dei sopravvissuti, augurandogli di cuore buon lavoro.

 

J.M.: Che cosa suggeriresti a un giovane scrittore al primo colloquio di lavoro con un editore?

 

A.B.: Ascoltare attentamente. Per cercare di “sbagliare” di meno alla prossima occasione.

 

J.M.: E che cosa ti senti di dire a un giovane scrittore ai primi anni di esperienze professionali?

 

A.B.: Posso ripetere quello che ho già detto, perché penso che sia la cosa più importante: deve studiare i maestri, ascoltarsi dentro, nel profondo, e scrivere con umiltà. Sono i tre passaggi fondamentali di qualunque espressione artistica: introiezione degli stimoli provenienti dall’esterno, elaborazione interna ed esternazione della creazione.

 

 

 

 

 

Seconda parte: “Esperienze professionali”

 

 

 

J. M.: Raccontami delle tue esperienze professionali come scrittore…

 

A.B.: I primi lavori teatrali completi li ho scritti a Milano, alla luce delle esperienze che avevo fatto nelle platee cittadine. Qui ho imparato la tecnica necessaria per creare dei personaggi e calarli in una trama, con una forma accettabile per il pubblico. Ho ricevuto in quel periodo gli utili consigli di un critico teatrale e poeta oggi purtroppo scomparso, Roberto Rebora. Più tardi, un aiuto per la messa in scena dei miei lavori mi è venuto da un altro critico - regista, direttore dell’Accademia d’Arte drammatica di Roma, Ruggero Jacobbi, anche lui prematuramente mancato.

 

J.M.: Moltissimi lavori teatrali che tu hai scritto sono stati rappresentati: al Piccolo Teatro di Milano, al Teatro Sistina di Roma, al Teatro Stabile di Trieste

 

A.B.: Queste occasioni ci sono state, purtroppo a esse non è seguita una continuità, nonostante l’approvazione del pubblico e della critica. Niente si accumula sul tuo conto e ogni volta bisogna ricominciare da capo.

Fra queste occasioni devo ricordare la rappresentazione del Piccolo Teatro di Milano (L’equipaggio della ‘Zattera’), quella del Teatro Stabile di Trieste (I dadi e l’archibugio), del Teatro Sistina di Roma (L’eredità), della Compagnia del San Genesio di Roma (Il vento e i giorni e La nuova isola), della Compagnia Milanese (Incontro al Carrobbio e Amilcare Ricotti, capocomico), del Teatro Filodrammatici di Milano (Labirinto) e altre ancora.

 

J.M.: Hai ricevuto sette premi teatrali nazionali e uno internazionale…

 

A.B.: Ho partecipato ai principali concorsi teatrali banditi in giro: ne ho vinti otto, sette nazionali e uno internazionale. E precisamente: Riccione, Pirandello (Agrigento); Istituto del Dramma Italiano, Anticoli Corrado, Giuseppe Fava, Pozzale, Luigi Antonelli, Pirandello - Brecht project di New York con “Lunaria” che è stato messo in scena a New York, unico mio testo vincente rappresentato. Gli altri che sono giunti in palcoscenico ci sono arrivati grazie all’interessamento di amici e non certo per il premio ricevuto. Basta pensare a “Don Giovanni al rogo” premio dell’Istituto del Dramma Italiano assegnato da una Giuria presieduta dal Premio Nobel Salvatore Quasimodo, nel corso di una cerimonia ufficiale a Saint Vincent, alla presenza di numerosissimi attori, registi, critici, direttori di teatro. Testo pubblicato e tradotto in inglese e francese, del quale il critico Ruggero Jacobbi scriveva: “... di singolare novità di concezione e di un’alta dignità letteraria… alcune scene sono tra le migliori del teatro italiano del nostro tempo.”. Ebbene, questo lavoro non ha mai trovato la via del palcoscenico.

 

J.M.: E le tue collaborazioni con le televisioni, radio...

 

A.B.: Ho collaborato con la Rai – Tv italiana, la Radio della Iugoslavia, la Radio e la Televisione Svizzera, Tele Montecarlo e con la Radio Greca.

 

J.M.: Molti critici di rilievo hanno scritto delle tue opere...

 

A.B.: I maggiori critici italiani hanno scritto dei miei lavori (Jacobbi, De Monticelli, Possenti, Terron, De Chiara, Prosperi e altri). Roberto Rebora ha pubblicato su di me una monografia critica apparsa nella “Rivista Italiana di Drammaturgia”.

 

J.M.: Qual è il tema più importante che affronti nei tuoi testi teatrali?

 

A.B.: Soldato, dopo la campagna di Russia, ho passato con mezzi di fortuna la Linea Gotica, mi sono arruolato nell’Esercito Italiano di Liberazione, partecipando alla cacciata dei nazi - fascisti. Anche per questi motivi personali (in totale ho fatto sei anni di sevizio militare!) l’antimilitarismo è uno dei primi temi che ho affrontato nel mio teatro degli anni Cinquanta. Seguono successivamente testi d’impegno su vari fronti sociali.

 

J.M.: Precedentemente abbiamo parlato in generale dell’ispirazione dello “scrittore”, ma tu personalmente a che cosa ti ispiri quando scrivi i tuoi testi? E che cosa provi dentro di te in quei momenti?

 

A.B.: Aspetto con gioia che un’idea maturi in me. Non so dove, non so come, né quando.

 

J.M.: Perché questa scelta?

 

A.B.: Perché non so comandare alle idee. Vengono assolutamente per caso. Il mio lavoro comincia dopo. Elaborarle in forma di testi da recitare.

 

J.M.: Ti è mai capitato di avere ispirazioni notturne, pensare di alzarti per scriverle ma poi decidere di continuare a dormire con la speranza di ricordarle la mattina dopo e al tuo risveglio averle perse per sempre?

 

A.B.: Mi è accaduto spesso. Guai a non alzarmi e a non appuntare l’idea: rischierei di dimenticare tutto.

 

J.M.: Qual è la cosa che ti stimola di più nello scrivere?

 

A.B.: Il conflitto fra i personaggi. Nella costruzione di un dialogo è indispensabile tenere presente la regola principale che presiede il colloquio teatrale: il conflitto. "Il teatro è conflitto" si dice di solito, e mai come in questo caso è possibile esprimere una verità così assoluta. Si può arrivare a dire che non esiste una sola battuta teatrale valida che non abbia al suo interno tracce di una qualsiasi contrapposizione.

Non è necessario uno scontro violento fra i protagonisti del dialogo. Nel "Romeo e Giulietta" di Shakespeare, per esempio, il conflitto si stende lieve sotto il colloquio poetico dei due innamorati, diventa invece doloroso quando accenna all'odio che separa le famiglie Montecchi e Capuleti, o quando si tratta di trasgredire la volontà paterna o la morale corrente, mentre nell' "Otello", il sospetto e il furore cieco di un uomo che si crede ingannato devono lottare contro la passione amorosa per la propria moglie. Nell' "Edipo re" il protagonista combatte contro l'orrenda verità che nasce a poco a poco e si sviluppa nella propria coscienza, attraverso le testimonianze che si succedono. La Nora di Ibsen in "Casa di bambola" contrasta con la mentalità corrente per la propria libera realizzazione, mentre nel "Così è se vi pare" di Pirandello la contrapposizione si svolge entro e contro una società frivola, meschina e spietata.

Non c'è teatro senza dialogo conflittuale, e questo dalle origini fino ai nostri giorni. Una legge fondamentale che attraversa tutte le epoche e tutti gli stili, dal dramma epico a quello pastorale, dai lazzi delle maschere della commedia dell'arte alle proposte della scena sperimentale.

Rispondendo a questa domanda mi accorgo di non aver detto nulla di nuovo, ma di aver ripetuto concetti e principi noti fino alla nausea a coloro che si occupano di teatro. Credo tuttavia che non siano stati inutili, a giudicare da molti testi, specialmente di giovani, che si accostano al palcoscenico con l'intenzione di poterci saltar sopra. Non si può andare per mare senza rispettare le fondamentali nozioni della navigazione, così non si può far teatro senza seguire le leggi che regolano tale genere di spettacolo. Ogni tentativo di portare una rivoluzione nel suo interno, in nome di una maggiore libertà espressiva è destinato a fallire miseramente se non si accettano le regole fondamentali che presiedono alla finzione chiamata teatro.

Niente di nuovo nelle nostre parole, dunque, come d'altronde dichiarava Molière nel "Don Giovanni": "Noi diciamo sempre le stesse cose perché le cose sono sempre le stesse". Rassegnamoci a queste ripetizioni. Il giorno in cui non serviranno più sarà un giorno felice per tutti coloro che scrivono, interpretano, ascoltano un testo teatrale.

 

J.M.: Di solito come nasce il tuo processo creativo fra immagine e parola? E come si evolvono insieme?

 

A.B.: Prima ho parlato dell’importanza assoluta del dialogo nell’opera teatrale; e ho sottolineato come esso sia l’essenza stessa della drammaturgia, di come l’una non possa sussistere senza l’altro, ma nell'affrontare il problema del dialogo non possiamo naturalmente trascurare quello del linguaggio, che ne è parte sostanziale. Qui non ci sono consigli da dare, cioè, non ci sono consigli che possano valere per tutti. In genere possiamo dire che il linguaggio nasce con l'idea stessa del dramma, con il carattere dei personaggi che in esso dovranno vivere. Proprio dalla loro natura nascerà l'incontro - scontro che illuminerà l'intera vicenda.

Facciamo qualche esempio concreto. Viviamo nella nostra epoca e vorremmo esprimerci in modo moderno e comprensibile da tutti. Un obiettivo facile da raggiungere, almeno in apparenza. Chi ci vieta di registrare i dialoghi veri che incontriamo nella nostra giornata al caffè, per strada, in ufficio, dialoghi costruiti con linguaggio "vero", "parlato", e quindi immediatamente percepibili da tutti? Questo sistema, però, ci riserverebbe un'amara sorpresa, perché in questo modo avremo sì raccolto una serie di dialoghi, ma non un solo dialogo teatrale degno di essere proposto a un pubblico di ascoltatori. Sul dialogo preso dal vivo, in altre parole, deve intervenire l'autore drammatico per renderlo teatrale, per dargli cioè il "taglio" necessario che permetta a un attore di interpretarlo e a un pubblico di ascoltarlo.

Il verismo a teatro come in letteratura esiste, ed è stato in grado di creare opere pregevolissime, addirittura dei capolavori, ma sarebbe un errore pensare che l'autore abbia trasportato meccanicamente nel suo lavoro il "vero" raccolto intorno a lui. Una sapiente opera di trasfigurazione ha reso quel "vero" creazione autentica dell'autore, e non del bar, della strada, dell'ufficio, sollevandolo dalla piatta banalità per trasformarlo in uno strumento idoneo per comunicare emozioni.

Nulla a teatro è più falso della verità riprodotta con esattezza. Un vero ubriaco in scena non può che suscitare noia e disgusto, mentre un attore che recita la parte dell'ubriaco è gradito e convincente.

 

J.M.: Dopo che tu hai scritto i testi di un’opera teatrale o parte di essi, come li revisioni prima che vengano messi in scena?

 

A.B.: Come regola generale cerco di fare in modo che i miei testi non abbiano bisogno di revisioni all’atto della messa in scena, ma tutto è sempre possibile.

 

J.M.: Quali dei tuoi testi sono stati tradotti in lingua inglese?

 

A.B: Due dei miei testi sono stati tradotti in inglese, ed ambedue da Hugh Barty King: “Don Giovanni al rogo” (in inglese “Don Juan in flames”) e “I dadi e l’archibugio” (in inglese “Assault at arms lenght”). La prima è stata premiata dall’Istituto del Dramma Italiano, come ho accennato poco fa, mentre la seconda è andata in scena a Porthcurno, in Cornovaglia negli anni ’60, in una messinscena estiva all’aperto. Da questo testo è stata inoltre tratta una commedia musicale – Blunderbuss -, rappresentata a Londra una decina d’anni fa.

Sono stato poi tradotto in francese, inglese, spagnolo, sloveno, ceco, russo, greco, romeno e serbocroato.

 

J.M.: Qual è il pubblico a cui ti rivolgi in particolare?

 

A.B.: A tutti i pubblici che mostrino di gradire i miei lavori.

 

J.M.: Come recepisce il pubblico i tuoi testi?

 

A.B.: In modo positivo, almeno fino ad oggi.

 

J.M.: Quando hai cominciato a scrivere?

 

A.B.: Ho incominciato molto presto, ma si trattava più o meno di tentativi che spesso venivano abbandonati prima della fine.

 

J.M.: C'è stata qualche persona oppure uno o più eventi in particolare che ti hanno incoraggiato a cominciare a scrivere testi teatrali?

 

A. B.: Io sono nato a Livorno, una città che ha sempre ospitato compagnie di giro che presentavano il loro repertorio. Ho incominciato molto presto a frequentare le sale di spettacolo, a dodici, tredici anni circa. Mio padre, appassionato di teatro, mi portava con sé, al vecchio Politeama specialmente, una sala che adesso non c’è più. Lì ho visto sfilare il repertorio di quegli anni e, se ben ricordo, cominciavo già a seguire con disagio, senza un preciso perché, le commedie del teatro borghese allora di moda. I classici invece mi entusiasmavano e di quelli conservo un vivo ricordo.

In età matura ho scelto di vivere a Milano per l’intensa vita teatrale che qui si svolgeva. Ho seguito con entusiasmo la sua ascesa e assistito con rammarico alla sua decadenza.

 

J.M.: In che modo la tua esperienza adolescenziale ha influenzato il tuo modo di scrivere?

 

A.B.: Moltissimo. La mia esperienza adolescenziale ha determinato in modo drastico e decisivo il mio modo si scrivere.

 

J.M.: Oggi come lo definiresti il “tuo stile” di scrivere?

 

A.B.: E’ un genere ironico – satirico, che però diventa epico nei lavori drammatici.

 

J.M.: Tornando indietro col tempo (all’inizio della tua carriera) e ripercorrendola fino ai giorni nostri, cosa pensi sia cambiato da allora nel “tuo stile” di scrivere?

 

A.B.: Non penso che sia cambiato molto né dal punto di vista degli intenti di stile, né delle finalità letterarie. E’ senz’altro cambiato (spero migliorato! – o, quantomeno, affinato) il risultato finale.

 

J.M.: Qual è stata la tua evoluzione professionale?

 

A.B.: Direi una normale progressione in linea col tempo che passa e le esperienze che, via via, ti formano e ti maturano.

 

J.M.: Chi sono i maestri e gli autori letterari che ti hanno maggiormente impressionato positivamente e aiutato a migliorarti professionalmente?

 

A.B.: Ci sono sicuramente alcune opere teatrali che, almeno per me, sono state illuminanti. Fra i miei molti maestri ricorderò Pirandello dei “Sei personaggi”, de “La patente” e di “Liolà” e Bertolt Brecht de “L’Opera da tre soldi”, de “Il cerchio di gesso del Caucaso” e de “La linea di condotta” che hanno inciso profondamente sul mio modo di affrontare la realtà che intendevo mettere sulla carta. Sull’esempio di Pirandello e di Cechov ho scritto anche racconti più o meno lunghi, al limite addirittura del romanzo, ma anche questa esperienza mi ha convinto della mia vera natura di scrittore di teatro.

 

J.M.: So che tu hai avuto contatti con molte Compagnie importanti, compreso il “Piccolo Teatro di Milano”…

 

A.B.: Al “Piccolo” di Milano hanno rappresentato “L’equipaggio della ‘Zattera’”, un testo antimilitarista che ha ricevuto da pubblico e critica apprezzamenti assai lusinghieri.

 

J.M.: Poco fa hai parlato di una montagna di copioni, vuoi essere più preciso? E a che cosa stai lavorando in questo periodo?

 

A.B.: La mia produzione si avvicina ormai alle 60 opere ed è destinata a crescere (l’anno scorso, per esempio, s’è arricchita di due lavori). La maggior parte è composta di opere in due tempi; ci sono una mezza dozzina di atti unici e due o tre monologhi.

Per semplificare la ricerca ho diviso i miei scritti nei tre settori relativi al loro contenuto: Il dramma e la storia; L’ironia e la satira; Lo specchio di dentro.

Ora sto scrivendo una commedia ironica: “Denominatore comune”: L’argomento è, come si dice oggi, “minimalista”: vivere una vita normale nel seno di una famiglia normale è il sogno di molti, ma non a tutti è concesso. A Enzo, il protagonista, non è possibile, per quanti sforzi faccia e nonostante il suo spirito di adattamento. E’ importante però continuare nei tentativi perché, anche se non sarà possibile risolvere il caso, si arriverà a scoprire certe verità fondamentali del vivere umano.

 

 

 

 

 

Terza parte: “Privatamente”

 

 

 

J.M.: Ritengo che ci sia molto da imparare dalle persone con una lunga esperienza e sono molto interessato a sapere di più sulla tua infanzia e adolescenza...

 

A.B.: Un’infanzia ed un’adolescenza normale, né più né meno… forse meno che più.

 

J.M.: Nella tua vita hai visto passare diverse guerre, diverse generazioni… Come vedevi il mondo durante la tua giovane età e come lo vedi adesso?

 

A.B.: Come ti dicevo prima ho fatto sei anni di “naja”. E questa è un’esperienza importante, che ha segnato il mio modo di scrivere.

 

J.M.: Cos’è cambiato in tutti questi anni nella nostra società?

 

A.B.: C’è stato un gran cambiamento: per merito nostro dalla dittatura siamo passati alla libertà.

 

J.M.: Qual è, secondo te, l’età in cui i bambini iniziano ad essere influenzati dalla nostra società?

 

A.B.: Fin dalla prima età: è fuor di discussione.

 

J.M.: Da chi pensi che vengono influenzati i bambini e i giovani dei giorni nostri? E perché?

 

A.B.: Purtroppo dalla televisione. E’ una bambinaia comodissima e gratuita.

 

J.M.: Non pensi che in alcuni casi si stiano perdendo dei valori che prima sembravano essere molto più forti…

 

A.B.: Sono assolutamente d’accordo con te: c’è in atto una preoccupante perdita di valori.

 

J.M.: Secondo te, quali dovrebbero essere i “doveri” della scuola e della nostra società per aiutare ad “educare” i bambini e i giovani?

 

A.B.: Semplici e complessi allo stesso tempo: la scuola e la società hanno proprio il semplice e complesso compito di educare i bambini e i giovani di oggi per poter ritrovare domani degli uomini all’altezza di questo nome.

 

J.M.: E quelli dei genitori…

 

A.B.: Naturalmente è di lì che bisogna incominciare…

 

J.M.: So che è una domanda alla quale non è facile rispondere, ma secondo te, come si dovrebbe educare un giovane?

 

A.B.: Allo studio, alla pace e al rispetto per gli altri.

 

J.M.: Che messaggio indelebile vorresti lasciare ai giovani di oggi e a quelli delle generazioni future?

 

A.B.: Lascio i miei testi teatrali e spero che coloro che li leggeranno possano trarre da essi anche una sola piccola verità. E’ sufficiente.

 

J.M.: Qual è il tuo rapporto con internet?

 

A.B.: E’ un “editore” democratico e liberale. Dà la possibilità di diffondere il proprio pensiero e le proprie opere in tutto il mondo a costi praticamente nulli. In altre epoche tutto ciò era assolutamente impensabile.

Io ho un sito che, oltre a contenere il mio curriculum, recensioni e saggi critici sui miei lavori, permette di leggere o prelevare molti dei miei testi.

Ora, caro John, se non hai altre domande, ti ringrazio e ti saluto.

 

J.M.: Anch’io ti saluto e ti ringrazio.

 

 

 

Intervista raccolta da John More: www.JMIAS.com

 

 

 

 

 

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