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CAIO CESARE, DETTO CALIGOLA

 

 

due parti e sei quadri

 

 

 

[Testo tutelato dalla Società Italiana degli Autori e degli Editori (S.I.A.E.)]

 

 

 

 

 

Caio Cesare, l'imperatore romano soprannominato Caligola, è stato un pazzo sanguinario, come ci è stato consegnato dalla storia, oppure un filosofo che ha alimentato una sorta di lucida follia assolutamente inedita per l'epoca? Di contribuire a questo dibattito si occupa l'azione di "Caio Cesare, detto Caligola".

 

Durata: due tempi

Genere: drammatico

10 personaggi (9 uomini e 1 donna, ma può essere interpretato da un numero minimo di 7 attori: 6 uomini ed 1 donna)

 

 

 

 

 

LA SCENA

 

Sala del palazzo imperiale. Alcune aperture. Una porta.

 

 

 

 

 

LE PERSONE

 

CAIO CESARE                    soprannominato CALIGOLA

CESONIA                            sua moglie

MARCO                              suo amico

AGRIPPA                           suo intendente

SENECA                             filosofo

CHEREA                             pretoriano

POMPEO LENTULO          ex legionario

LIVIO CASSIANO              senatore

POTITO                              giovane popolano

MNESTER                          attore

 

due uomini, che non parlano, di volta in volta soldati, servi, congiurati.


 

 

 

 

 

 

 

PRIMA PARTE

 

 

 

      I QUADRO

 

(In scena: Caligola, Seneca, Chèrea, Cesonia e due congiurati. Chèrea e i due congiurati hanno la spada sguainata, Cesonia viene avanti dal fondo. Seneca è seduto e guarda immobile la scena.)

CHEREA

 – Parola d'ordine?

CALIGOLA

 – Giove!

CHEREA

 – ... e allora che sia esaudito!

(vibra un colpo di spada a Caligola che cade)

CESONIA

(viene avanti gridando)

 – ... Hanno ucciso l'imperatore!...

(si getta sul corpo di Caligola)

 ... Caio Cesare, mio amato... che cosa ti hanno fatto?!...

(singhiozzando)

 ... è morto!... è morto!

CALIGOLA

(si rialza e spinge via bruscamente la donna ancora china su di lui)

 – Cagna!... schifosa cagna! in questo modo ti comporti davanti al mio cadavere?!

CESONIA

 – Perdonami, Caio, l'emozione mi ha vinta e mi ha spezzato il respiro.

CALIGOLA

 – Parli della tua emozione, miserabile?... e che roba è? c'è una sola emozione che conta, quella che devi far nascere negli spettatori, non lo sai?... la senti, Seneca, come tratta le leggi del teatro, quest'ignorante?

CESONIA

 – Perdonami, Caio, l'azione era così vicina alla realtà che per un momento mi è sembrata addirittura vera.

CALIGOLA

 – Vicina alla realtà? ma se puzzava di finzione in modo indecente.

CESONIA

 – Eppure, mio amato, ho avuto per un momento la sensazione che si trattasse di un vero attentato.

CALIGOLA

 – E perché, allora, non sei a terra con la gola squarciata? hai l'impressione che io sia morto e non provi l'impulso di seguirmi? Non fa che parlarmi del suo amore: mio amato, mio amato, e invece non pensa che a sopravvivermi.

CESONIA

 – L'avrei fatto se la scena fosse continuata ancora per un attimo, ma all'improvviso mi ha illuminata l'idea che si trattava di una finzione.

CALIGOLA

(ride)

 – Una finzione riconosciuta che ti salva da una supposta verità. Ce n'è abbastanza per una discussione filosofica, vero Seneca?

SENECA

 – Abbastanza per giocare con le parole, Caio.

CALIGOLA

 – Mi piace giocare anche con quelle. E cosa credi che faccia in senato, quando arringo l'orda senatoriale? le lancio quelle parole come pietre su quelle care teste imbiancate dall'assenza di idee che c'è sotto, oppure le sussurro come se davvero fossero segrete, importanti e decisive, e costringo tutti a seguirle nel silenzio più assoluto, con il fiato sospeso. Nessuno s'è mai accorto che sto recitando e che il teatro è la mia vera passione. Hai visto anche tu, Seneca, come la mia interpretazione di poco fa si imponesse sulla cialtroneria generale.

SENECA

 – Uno spettacolo sufficiente per dare l'idea di un attentato. Per questo lo trovo imprudente: a qualcuno l'idea potrebbe piacere.

CALIGOLA

 – Così com'è stato presentato non può esser preso in considerazione: un'azione evidentemente destinata al fallimento.

SENECA

 – Non ne sarei troppo sicuro.

CALIGOLA

 – Affideresti una tua tragedia a simili interpreti? Tu, Chèrea, per esempio, non sei entrato nel tuo personaggio, ci vuole più concitazione nei gesti e nella voce. Il colpo che vibri è troppo devoto, troppo deferente. Non stai uccidendo l'imperatore: davanti a te c'è un mostro sanguinario che deve essere abbattuto. Hai visto invece la mia esibizione? il modo in cui mi sono lasciato cadere, l'hai notato? che perfezione di stile e di espressione ho raggiunto! te ne sei accorto?... prima un attimo di sorpresa, poi l'accenno a un'impossibile fuga, quindi il tentativo di una vana difesa e finalmente la rassegnata accettazione del destino... così, guarda...

(ripete la caduta)

 ... attento ora al braccio che si stacca dal fianco e nell'abbandono dà il segno della morte avvenuta... superbo, vero?... e tu, Seneca, hai visto?

SENECA

 – Vedo, vedo.

(Chèrea, Cesonia e i due congiurati si allontanano parlando fra loro, quindi escono)

CALIGOLA

(rialzandosi)

 – Ah, perché la politica mi ha sottratto alla mia vera vocazione: il teatro! avrei toccato le più alte vette dell'arte.

SENECA

 – Non ti bastano quelle che hai raggiunto come imperatore?

CALIGOLA

 – C'è una parte di me, forse la migliore, che avrei potuto esprimere solo sulla scena.

SENECA

 – Ti trovi su un palcoscenico gigantesco e hai addosso gli occhi di tutto il mondo che fa da spettatore. Di che ti lamenti?

CALIGOLA

 – Devo inventarmi il copione e non ho il tempo di concentrarmi sulla interpretazione.

SENECA

 – Ma è la condizione ideale per un teatrante: scrivere il testo e interpretarlo.

CALIGOLA

 – Non è il testo che io avrei voluto scrivere: a guidarmi lo stilo sono gli interessi dello stato.

SENECA

 – Eccoti allora nelle condizioni usuali per un attore: recitare un dramma che altri hanno scritto.

CALIGOLA

 – Un dramma però che non ho la facoltà di scegliere.

SENECA

 – Sentiamo un po' quale testo andrebbe a genio all'attore che è in te.

CALIGOLA

 – Oh, ce ne sono diversi. Ma, se ti dicessi che è un tuo lavoro che mi piacerebbe interpretare?

SENECA

 – E quale sarebbe?

CALIGOLA

 – E' un dramma di cui ho sentito recitare alcuni brani in una sala di declamazione. Non so se tu in seguito l'hai completato.

SENECA

 – Come s'intitola?

CALIGOLA

 – "Ercole infuriato".

SENECA

 – E' un lavoro giovanile che non ho portato a termine. Forse lo riprenderò in mano un giorno o l'altro.

CALIGOLA

 – E' un buon dramma e ne vale la pena. Io mi sento dentro la parte di Ercole:

(recitando)

"Oh, Febo, tu che sei padrone della luce sul mondo, tu che domini il cielo, percorrendolo sul tuo carro di fuoco..."

SENECA

 – L'hai imparato a memoria?!

CALIGOLA

 – Perché è una parte che mi piace.

SENECA

 – Anche più avanti, quando l'azione irrompe con la sua raccapricciante drammaticità?

CALIGOLA

 – Quello è il punto che più mi affascina.

SENECA

 – Quando Ercole uccide la moglie e i figli scambiandoli per i familiari del suo nemico?

CALIGOLA

 – E' proprio quello che mi fa preferire il tuo Ercole all'Eracle di Euripide. Nell'Eracle l'azione è solo raccontata, nella tua invece tutto avviene sulla scena.

SENECA

 – E non lo trovi terrificante?

CALIGOLA

 – E' stata Giunone a sconvolgere la mente di Ercole.

SENECA

 – Resta sempre lo spaventoso massacro.

CALIGOLA

 – Ma Ercole non è responsabile! E qui, Seneca, c'è il perché mi sento addosso il tuo lavoro, come un abito fatto sulle mie misure. Ho pensato a lungo sul dramma fino ad arrivare a un'idea precisa. Mi sono convinto che a determinare le mie azioni non è stata la mia volontà, ma quella di una potenza divina.

SENECA

 – Troppo comodo scaricare in questo modo le proprie colpe.

CALIGOLA

 – Non guardare così in basso, Seneca, io mi trovo su un piano più alto: voglio affermare un principio rivoluzionario, un'ipotesi che sovverte la nostra responsabilità nelle azioni che compiamo.

SENECA

 – Non potrò mai accettarla, Cesare.

CALIGOLA

 – Troppo pericolosa, vero? Dove andrebbe a finire il tuo mondo di moralismi decrepiti, se si ammettesse che la divinità non resta immobile a giudicare i nostri atti, ma partecipa responsabilmente a determinarli?

SENECA

 – La divinità è forza attiva che si contrappone alla materia immobile. Ma dio non può che ispirare amore e comprensione per gli uomini. Ognuno è solo e responsabile davanti al bene o al male da scegliere.

CALIGOLA

 – Che cos'è il bene e il male, me lo sai dire? E' un bene sottomettere un popolo per allargare i confini dell'impero? ed è un male sottrarlo alla barbarie? è un bene imporgli con la forza il tributo da pagarci, e un male difenderlo contro le aggressioni dei suoi vicini?

SENECA

 – Difficile rispondere, Cesare: il bene e il male non sono sempre rintracciabili sotto le azioni di chi governa. Il tempo può dare una risposta più vicina alla verità.

CALIGOLA

 – Scendiamo ai casi personali, allora: è giusto che l'imperatore agisca contro gli organizzatori dei complotti che attentano alla sua vita?

SENECA

 – Più che giusto, una volta che i fatti sono stati accertati nella loro evidenza.

CALIGOLA

 – Quando non ci sono più dubbi, cioè, quando l'imperatore è steso per terra, trucidato.

SENECA

 – Quando il complotto è stato scoperto, intendevo.

CALIGOLA

 – E come puoi scoprire che si tratta di un vero complotto, prima che il suo fine non sia stato raggiunto? Troppo facile intervenire su coloro che hanno la spada snudata, l'intenzione va ricercata più lontano, più a fondo: un atteggiamento o una parola, a volte, rivelano il disegno preciso. Spesso, anche uno sguardo è sufficiente, un semplice e innocuo volgere degli occhi denuncia la determinazione delittuosa. Non è giusto che a questo punto scatti una difesa che recida sul nascere la congiura, che forse non è ancora pronta nelle menti, ma che potrebbe coagularsi come il sangue su una ferita, se non trovasse il carnefice sul suo cammino?

SENECA

 – Che cosa stai cercando, Cesare, una giustificazione del tuo operato?

CALIGOLA

 – Una spiegazione soltanto sarebbe sufficiente. Io ho vissuto a lungo alla corte di Tiberio per conoscere bene il delitto. Tiberio, il macellaio di Capri che uccideva per esaltare la sua potenza. Io, soltanto per affermare il mio diritto a difendermi.

(entra Cesonia con un mazzo di fiori che colloca in un vaso)

SENECA

 – Ecco chi potrà assolverti. E' meglio che ti lasci con lei.

(esce)

CESONIA

 – Sei ancora qui, mio amato... c'è di là una giovane donna che ti cerca: si chiama Tullia.

CALIGOLA

 – E' la moglie del senatore Livio Cassiano. Non c'è suo marito?

CESONIA

 – No, è venuta da sola.

CALIGOLA

 – Allora bisogna chiamarlo subito...

(batte le mani; entra Agrippa)

 ... che il senatore Livio Cassiano venga qui immediatamente.

(Agrippa esce)

Quel vecchio impotente! ha passato i sessant'anni e s'è preso una moglie di venti.

CESONIA

 – A quell'età il cibo non va giù se non è appetitoso.

CALIGOLA

 – Il minimo che possa capitare a quel caprone, è vedere sua moglie che se la spassa con un giovane.

CESONIA

 – Il pericolo esiste.

CALIGOLA

 – E noi quel pericolo lo faremo diventare realtà. Sto per offrirti uno spettacolo eccitante. Tu rimarrai con il senatore in questa stanza, mentre in quella di là io mi divertirò con la bella Tullia. Vedrai la faccia che farà Cassiano immaginando quello che sta accadendo fra me e sua moglie.

CESONIA

 – Si consolerà come hanno fatto tanti altri: il fatto che l'imperatore abbia scelto la loro moglie per un incontro d'amore, ha rappresentato un grande onore di cui andare fieri.

CALIGOLA

 – Questo alla luce del ragionamento, ma per quanto tempo un uomo può resistere ai comandi del suo raziocinio? la scelta del comportamento da seguire viene dal cervello, ma è dal basso che arrivano gli istinti, gli impulsi naturali, le pulsioni passionali. Te l'immagini, Cesonia, la tempesta che si scatenerà nell'animo del senatore Cassiano... la giovane moglie, una bambina quasi, nuda, avvinghiata a un giovane che la stringe voluttuosamente, quasi a far penetrare la sua carne nella propria. E tu ce l'avrai davanti agli occhi fra poco quella faccia devastata da uno smisurato tormento... oh, come ti invidio, Cesonia!... immagino che cosa vorresti chiedermi: perché non schiudo quella porta e lo faccio assistere, il senatore, alla profanazione della sua consorte... ma perché la realtà sarebbe di molti gradi inferiore all'immaginazione... vuoi mettere l'emozione che suscitano i suoni ascoltati al di qua di quella porta chiusa? l'insistente scricchiolio del letto, un sospiro più lungo e più intenso, un fioco gemito che non è di dolore... allora il turbamento cresce a dismisura e il battito del cuore si fa tumultuoso sulla distruzione della propria esistenza.

CESONIA

 – E' questo quello che cerchi nell'uomo, Cesare?

CALIGOLA

 – Nel senatore Cassiano lo cerco.

CESONIA

 – E perché proprio in lui?

CALIGOLA

 – Per quella felicità che, mi dicono, lo avvolge e lo inebria insieme con la moglie.

CESONIA

 – Tu che invidi Cassiano?! tu un imperatore, e in aggiunta, un giovane?

CALIGOLA

 – Vive una vita completamente felice, capisci? in questo mondo sconvolto da dolori e tristezze, lui solo privilegiato, protetto dagli dèi.

CESONIA

 – Se davvero sono gli dèi a volerlo felice, come puoi intervenire?

CALIGOLA

 – Io non mi rassegno, lo strapperò dalla sua isola di gioia e lo riporterò nel cuore di un'umanità tormentata e sofferente.

CESONIA

 – Là dove si trova, c'è arrivato senza danneggiare nessuno, con le sole sue forze. Non è lecito per un uomo cercare condizioni migliori di esistenza?

CALIGOLA

 – Non è lecito sollevarsi così tanto sull'umanità che tali condizioni non ha raggiunto. Ma ci sono io a intervenire per riportare giustizia. E' compito del principe illuminato distribuire equamente benefici e sofferenze.

CESONIA

 – Ma le gioie dello spirito non sono elargite da nessuno, ognuno, se può, se le cerca da solo e nessuno può strappargliele.

CALIGOLA

 – Ti sbagli, Cesonia. Se Cassiano non fosse un vecchio, l'avrei già spedito in qualche legione ai confini dell'impero. Dove sarebbero finite le gioie dello spirito?

CESONIA

 – Per quello, avresti anche potuto farlo uccidere.

CALIGOLA

 – Ma sarebbe stato un errore, perché ora mancherebbe lo spettacolo della sua faccia sconvolta e del suo animo lacerato di fronte allo stupro di Tullia. Sarà una visione indimenticabile alla quale non voglio mancare. Ci sarò anch'io a osservare la disperazione di Cassiano in quel momento.

CESONIA

 – E com'è possibile?

CALIGOLA

 – E'possibile. Perché quando avrò finito con Tullia tornerò di qua, ma nella camera, al mio posto, lascerò un servo con ordini precisi. Ecco perché di fronte a Cassiano, questa volta, ci sarò anch'io con lo sguardo puntato su di lui.

CESONIA

 – Hai gli occhi pieni di fuoco e il respiro che ti manca: scopro un lato del tuo carattere che ancora non conoscevo.

CALIGOLA

 – E sarebbe?

CESONIA

 – E' come quando ti prepari a scrutare il viso di un condannato a morte durante l'esecuzione.

CALIGOLA

 – Un momento di verità da non trascurare.

CESONIA

 – C'è ancora dell'altro in te che non riesco a capire.

CALIGOLA

 – Che cos'è, Cesonia?

CESONIA

 – Mi domando perché continui a cercare da altre donne quello che io ti posso dare molto meglio di loro.

CALIGOLA

 – Su questo non ci sono dubbi, e la prova è che la nostra relazione dura nel tempo, mentre con le altre basta un solo incontro a saziarmi e a farmi tornare da te più appassionato che mai.

CESONIA

 – Perché ci vai, allora?

CALIGOLA

 – E' l'ignoto, Cesonia, a tentarmi. Che cosa ci sarà dietro un aspetto severo e dignitoso, nel fondo dell'esemplare riservatezza di una sposa devota o di una fanciulla innocente che non ha ancora conosciuto l'amore?

CESONIA

 – E che cosa trovi?

CALIGOLA

 – Freddezza e insensibilità il più delle volte, ostentate come virtù principali; qualche volta inesperienza simulata con goffe e impacciate manovre, ai limiti del disgusto e della compassione. In qualche caso c'è una naturale lussuria che travolge gli argini e si stende come acqua su una terra arida, ma nasce dalla carne e non dal cervello. Per questo il piacere naufraga subito nella sazietà.

AGRIPPA

(annunciando)

 – Il senatore Livio Cassiano.

CALIGOLA

 – Che entri.

(a Cesonia)

 – Vedremo fra poco quello che c'è dentro Tullia.

CASSIANO

(entrando)

 – Salute, Caio Cesare. Sempre pronto ai tuoi ordini.

CALIGOLA

 – Grazie, Cassiano. E' una grande consolazione sapere di potere contare su di te.

CASSIANO

 – Per questo non devi avere alcun dubbio, Cesare. Te l'ho dimostrato più volte in senato.

CALIGOLA

 – Una devozione in senato... e fuori, naturalmente?

CASSIANO

 – Certo, anche fuori!

CALIGOLA

 – Volevo esserne certo, caro Cassiano, perché non è solo in senato che si svolge tutta la nostra vita.

CASSIANO

 – Naturalmente no, Caio Cesare.

CALIGOLA

 – Siedi, Cassiano. C'è tua moglie di là, lo sai?

CASSIANO

 – Sì, anche lei ha ricevuto l'ordine di venire qui.

CALIGOLA

 – E' giovane tua moglie... e molto bella, mi dicono.

CASSIANO

 – E' tutto quello che ho, una gioia che mi è capitata negli ultimi anni della mia vita.

CALIGOLA

 – E... scusa la mia curiosità un po' indiscreta... ha accettato di buon grado, tua moglie, la differenza di età fra voi?

CASSIANO

 – E' una ragazza modesta, abituata ad accontentarsi di ciò che il destino le ha dato.

CALIGOLA

 – Capisco. Ho davvero voglia di accertare questa virtù: andrò da lei adesso.

CASSIANO

 – Hai deciso di andare da...

CALIGOLA

 – Se a te non dispiace troppo che io mi occupi di lei.

CASSIANO

 – No, anzi... è un onore che tu... ma qui al palazzo non ti mancano certo donne più belle da avvicinare.

CALIGOLA

 – E invece è di tua moglie che m'è venuto il capriccio. Vorresti negarmelo, forse?

CASSIANO

(a denti stretti)

 – No, certo no, Cesare... penso solo che dovrai abbassarti a...

CALIGOLA

 – Non ci badare, io so adattarmi facilmente.

(fa per andare, ma Cassiano lo trattiene)

CASSIANO

 – Un momento, ti prego... è meglio che vada a prepararla...

CALIGOLA

 – Non ce n'è alcun bisogno.

CASSIANO

 – ... almeno a spiegarle quello che...

CALIGOLA

 – Ci penserò io... non ti preoccupare.

(entra nella stanza mentre Cassiano è in preda a una viva agitazione)

CESONIA

 – Non vuoi sedere accanto a me, Cassiano?

CASSIANO

(cercando di contenersi)

 – Sì, certo, Cesonia.

CESONIA

 – Capitano a volte, all'imperatore, certe stranezze improvvise.

CASSIANO

 – E tu non hai niente da dire? sei disposta ad accettare che...

CESONIA

 – Non sono cose importanti. Un desiderio che si spegne in un attimo, proprio com'è venuto.

CASSIANO

 – Solo che mia moglie non è abituata a questi casi... non sa neanche che possono esistere... è una bambina mia moglie...

(si tormenta le mani)

CESONIA

 – Vieni a sedere, Cassiano. Non è niente, sai, io come donna posso dirtelo. Meno che niente: solo un capriccio dell'imperatore. Te l'ha anche detto, no?

CASSIANO

(siede)

 – Sì, non è niente, in fondo, hai ragione... solo un'idea che si affronta con difficoltà... che non si riesce ad accettare!... uno scrupolo, nient'altro...

(si alza e si avvicina alla porta)

 ... sento delle voci...

CESONIA

 – Sì, stanno parlando, ma è solo un mormorio, non si può sentire quello che dicono. Vieni a sedere, Cassiano.

(Cassiano torna a sedere ma si rialza subito)

CASSIANO

 – Ora non parlano più... che cosa stanno facendo?!

CESONIA

 – Niente di strano, stai calmo. Ti verrà restituita fra poco la tua bella Tullia, tutta intera.

CASSIANO

 – E' quest'attesa... quest'incertezza che logora.

CESONIA

 – D'incerto non c'è nulla, purtroppo.

CASSIANO

(colpito)

 – Purtroppo?

CESONIA

 – Credi di essere l'unico ad avere certi scrupoli?

CASSIANO

 – Anche tu, dunque?... sei in grado di capirmi, allora.

CESONIA

 – Come no? perfettamente ti capisco, anche quando non parli.

(Si apre la porta e compare Caligola. Cassiano si alza di scatto e gli si avvicina)

CALIGOLA

 – Proprio come pensavo: ne valeva la pena.

CASSIANO

(con amarezza)

 – Mi rallegro della tua soddisfazione. Posso andare da lei?

CALIGOLA

 – No, non ancora: è occupata adesso.

CASSIANO

 – Occupata perché?

CALIGOLA

 – Occupata con chi, vorrai dire... quel servo che ti ha introdotto, è lui che in questo momento...

CASSIANO

 – La mia Tullia contaminata da un servo?! ... no, non deve accadere!

(fa per slanciarsi sulla porta, ma Caligola lo ferma)

CALIGOLA

 – Fermo là! Contaminata perché? è un giovane sano e robusto... hai visto che spalle?

CASSIANO

(distrutto)

 – Non dovevi, Cesare, non dovevi...

CALIGOLA

 – So quello che faccio, invece, ho capito quello che mancava a tua moglie, e che io non bastavo.

CASSIANO

(disperato)

 – La mia Tullia con un servo... questo no, Cesare!

CALIGOLA

 – Perché ce l'hai con quel servo? è un tipo onesto e fidato... anzi, se vuoi te lo posso anche cedere... in una casa come la tua può sempre far comodo.

CASSIANO

(avvicina l'orecchio alla porta)

 – Ma sta piangendo!... sento dei lamenti...

CALIGOLA

(si avvicina anche lui)

 – E' vero!... gli avevo ordinato di andarci piano: è piuttosto delicata tua moglie... o forse, non si tratta proprio di dolore...

CASSIANO

 – Tullia!... la mia bambina nelle mani di un bruto!

CALIGOLA

 – Controllati, Cassiano! sei in uno stato pietoso.

CASSIANO

 – Non resisto, Cesare, fai cessare quest'infamia!

CALIGOLA

 – Non c'è bisogno del mio intervento: finirà da sé fra non molto... se non c'è volontà di replicare.

CASSIANO

(con un gemito)

 – Questo no, Cesare!

CALIGOLA

 – Due corpi giovani possono ben farlo.

(Cassiano riprende a lamentarsi. Si apre la porta e appare un servo, a capo chino. Cassiano estrae un pugnale e si slancia su lui. Caligola ferma il gesto stringendo il braccio armato)

No, Cassiano! sono io qui che comando la morte!

(al servo)

Via, tu!

(a Cassiano)

Puoi andare da tua moglie, adesso.

(Cassiano entra affannato nella camera)

CESONIA

 – Ti sembra disperato a sufficienza, adesso?

CALIGOLA

 – Sì, abbastanza... anche questa volta, però, la realtà deve cedere il passo all'immaginazione.

CESONIA

 – Non sei soddisfatto?

CALIGOLA

 – Ti ho detto di sì... anche se, in fondo, non era tutto quello che cercavo.

CESONIA

 – Vuoi dirmi, allora, che cosa volevi scoprire?

CALIGOLA

(a voce più alta)

 – La verità, Cesonia, sull'animale uomo!

(Pochi attimi di buio)

 

 

 

      II QUADRO

 

(Grida confuse, voci irate, cori di protesta. Agrippa è in scena e batte le mani: due servi entrano di corsa.)

AGRIPPA

 – Girate tutto il palazzo... che non sia stata dimenticata qualche apertura con l'esterno... via!

(i due servi si precipitano fuori dalla sala. Entra Marco)

MARCO

 – Basteranno i soldati qua fuori?

AGRIPPA

 – Il prefetto ha mandato un intero manipolo, ma se necessario interverrà tutta la coorte.

MARCO

 – E l'imperatore cosa ha detto?

AGRIPPA

 – L'imperatore riposa.

MARCO

 – Certo che in strada sono in molti... venivano dal Circo, da Porta Capena, dalle Terme... si sono incontrati nel Foro e hanno proseguito uniti; ora è una massa di popolo compatta... senti?

AGRIPPA

 – E' già accaduto altre volte, poi salta su qualcuno a parlare, gli animi si acquietano e la massa si scioglie.

MARCO

 – Questa volta è diverso: protestano per il grano che manca ed è difficile acquietare lo stomaco vuoto.

(entra Seneca)

Hai scelto un brutto giorno per venire al palazzo, Seneca.

SENECA

 – Anzi, mi sembra il più adatto per dare qualche buon consiglio.

(entra Caligola)

AGRIPPA

 – Bene alzato, Caio Cesare.

MARCO

 – Salute a te, Caio.

SENECA

 – Salute.

CALIGOLA

(ad Agrippa)

 – Quanti soldati ci sono intorno al palazzo?

AGRIPPA

 – Un intero manipolo, ma il prefetto è pronto a inviarne un secondo, e anche tutta la coorte se necessario.

SENECA

 – E' meglio farne a meno. Aumentare la difesa fa crescere d'importanza l'offesa. Non è augurabile che una massa sbandata pensi davvero di incutere timore.

CALIGOLA

 – Giusto! un manipolo è sufficiente, Agrippa... almeno per ora.

(Agrippa esce; Caligola a Marco)

Si può sapere il perché della protesta?

MARCO

 – Per il pane che manca nei forni.

CALIGOLA

 – E' colpa dell'imperatore se la siccità ha distrutto il grano nei campi?

SENECA

 – Ma il popolo ha visto passare i carri carichi di grano egiziano.

MARCO

 – I magazzini sono pieni: occorre solo pagare la merce.

CALIGOLA

 – E come? le casse sono vuote.

SENECA

 – Ecco, Caio Cesare, perché protesta quella gente.

CALIGOLA

 – Hanno voluto i giochi del circo, e sanno che costano cari. Trecento belve uccise in un giorno è una spesa enorme.

SENECA

 – Con il rischio ora che si trasformino in belve quelli là fuori.

AGRIPPA

(entrando per un attimo)

 – La folla si sta ritirando!

MARCO

 – La presenza dei soldati ha scoraggiato i più accesi, o addirittura i male intenzionati.

CALIGOLA

(davanti a un'apertura che presumibilmente guarda all'esterno)

 – Se ne stanno andando in silenzio, a bocca amara forse, per la protesta fallita... e pensare che questo è lo stesso popolo che tre anni fa mi acclamava come salvatore della patria. Mi ricordo quando ho accompagnato il corpo di Tiberio da Miseno a Roma: schiere compatte di cittadini per tutto il percorso, corone di fiori, gente prostrata al margine della strada... e non era per un omaggio all'imperatore morto, la scomparsa del macellaio di Capri riempiva tutti di gioia: erano per me quelle manifestazioni di affetto.

SENECA

 – Niente di più vero, Caio Cesare: la gente sperava in te, il giovane imperatore.

CALIGOLA

 – E come ti spieghi che poco dopo, contro di me sono scoppiate due congiure?

SENECA

 – Mutevole è l'operato del principe verso i cittadini, e altrettanto mutevole è il giudizio dei cittadini verso il principe.

MARCO

 – E di che cosa poteva essere accusato il nostro imperatore? di avere distribuito duemila sesterzi a testa al posto dei mille promessi da Tiberio? di avere pagato alla plebe quarantacinque milioni di sesterzi, di avere abolito il reato di lesa maestà o di avere richiamato a Roma gli esiliati? oppure di avere bruciato nel Foro montagne di denunce e altri documenti che provavano la colpevolezza di illustri indiziati? Forse di avere riesumato le opere di Tito Labieno, Cremuzio Cordo, Cassio Severo e di altri letterati perseguitati, oppure di avere consacrato il tempio del divo Augusto che da vent’anni attendeva di essere terminato?

SENECA

 – Questo nei primi sei mesi d'impero, e allora l'affetto popolare non era certo mancato.

CALIGOLA

 – E' continuato anche dopo, Seneca, fin quasi ai nostri giorni, e te lo posso dimostrare...

(batte le mani, ad Agrippa che appare)

E' arrivato quel tale Potito che avevo mandato a chiamare?

AGRIPPA

 – E' di là che aspetta.

CALIGOLA

 – Fallo passare.

(Agrippa esce e introduce Potito)

 ... tu sei Potito, vero?

POTITO

 – Sì, Caio Cesare.

CALIGOLA

 – Vieni pure avanti, che tutti possano guardarti, anzi, ammirarti... Sì, Potito è degno dell'ammirazione di tutti...

(Potito si prostra davanti a Caligola)

 ... perché mi ha dimostrato un'affezione grandissima... smisurata addirittura, come non mi era mai capitato di incontrare. Ricordate tutti, vero, la malattia che due mesi fa mi ha inchiodato nel letto con tanta violenza che tutti voi credevate che per me fosse giunta l'ora di morire? ebbene, questo giovane era così addolorato dal pensiero della mia scomparsa, che s'è messo a pregare gli dèi perché mi facessero guarire, ma poiché le mie condizioni peggioravano, la sua disperazione è arrivata al punto di scambiare la sua vita con la mia... sì, ha cominciato a supplicare gli dèi che facessero morire lui al posto mio. Capite che dimostrazione di amore mi ha dato?

MARCO

 – Eccezionale veramente, non potrai trovarne facilmente una simile.

CALIGOLA

 – Lo so, Marco, e proprio per questo io voglio ringraziarlo. Ah, se ce ne fossero molti come te, Potito, governare uno stato sarebbe una gioia!

POTITO

 – Come lo è per me vederti guarito.

CALIGOLA

 – Caro Potito, gli dèi ti hanno ascoltato. Eccomi in piena salute, vedi?

POTITO

 – Me ne rallegro, Caio Cesare.

CALIGOLA

 – E' per le tue preghiere che mi sono salvato, per il patto che tu hai stretto con gli dèi e del quale non mi stancherò mai di ringraziarti, caro Potito.

POTITO

 – Troppo buono, Cesare.

CALIGOLA

 – E' un dovere il mio... specialmente ora che bisogna onorare il contratto... tieni.

(porge qualcosa a Potito)

POTITO

(esamina quello che ha ricevuto, poi, spaventato)

 – Ma è un pugnale, questo!...

CALIGOLA

 – ... per aprirti le vene: il mezzo più semplice e indolore.

POTITO

 – Ma... ma io non voglio morire.

CALIGOLA

 – E il patto che hai stretto con gli dèi?

POTITO

 – Quando eri ammalato, ma ora stai bene e non vedo perché...

CALIGOLA

 – Sto bene perché gli dèi hanno accolto la tua invocazione e hanno accettato lo scambio.

POTITO

 – L'hanno fatto perché sono buoni e generosi.

CALIGOLA

 – Infatti, non sono stati loro a chiederti la vita, ma tu a offrirla.

POTITO

(piagnucolando)

 – Io non voglio morire, sono ancora giovane.

CALIGOLA

 – E il tuo contratto?! i debiti vanno pagati, non lo sai?

POTITO

 – L'ho fatta quella promessa quando temevo che gli dèi ti avessero condannato. Ma così non è stato: ora ti trovi in buona salute.

CALIGOLA

 – Ma per chi li hai presi gli dèi, per i tuoi buffoni?! loro hanno rispettato il patto e ora tocca a te.

POTITO

 – Io non voglio morire.

CALIGOLA

 – E il rischio, allora, a cui mi esponi? se non rispetti il contratto, anche gli dèi possono ritirare il loro impegno e farmi ripiombare nella malattia.

POTITO

(sempre piagnucolando)

 – Io non voglio morire...

CALIGOLA

(batte le mani, appare Agrippa)

 – Se non decidi di farlo da solo, ci penseranno i soldati...

(fa un cenno ad Agrippa che esce)

POTITO

 – No, ti prego, non farmi morire...

(entrano due soldati che afferrano Potito e lo trascinano via)

CALIGOLA

 – E' arrivata la paura all'ultimo momento a sciupare un gesto così generoso e disinteressato, ma quello che conta sono le buone intenzioni, non è vero Seneca?

(Tutti escono. Entra Cesonia e, poco dopo, Agrippa)

CESONIA

 – Che cosa sono queste voci e questo correre per le scale del palazzo?

AGRIPPA

 – E' arrivato uno strano individuo, Cesonia, che vuole parlare con l'imperatore.

CESONIA

 – Uno strano individuo? spiegati.

AGRIPPA

 – E' un vecchio legionario della XVª di stanza sul Reno.

CESONIA

 – Gli hai detto che l'imperatore non è a disposizione di tutti coloro che hanno voglia di vederlo?

AGRIPPA

 – Gliel'ho detto, ma lui ha insistito, giurando e spergiurando che l'imperatore, appena sentirà il suo nome, gli spalancherà le braccia.

CESONIA

 – Come si chiama?

AGRIPPA

 – Pompeo Lentulo

CESONIA

 – Un nome che non mi dice nulla.

AGRIPPA

 – Sembra che abbia conosciuto Caio Cesare quand'era bambino e viveva al campo con suo padre Germanico. Ha anche chiamato l'imperatore in un modo strano...

CESONIA

 – E come?

AGRIPPA

 – L'ha chiamato Caligola.

CESONIA

 – Sì è un soprannome che gli davano nell'infanzia, ma l'imperatore non vuole più sentirlo: nessuno può chiamarlo così.

AGRIPPA

 – Allora, che cosa ne facciamo di quel tale?

CESONIA

 – L'avete perquisito?

AGRIPPA

 – Dalla testa ai piedi.

CESONIA

 – Tenetelo di là. Vedremo quando viene l'imperatore... ha passato la notte agitato... sempre su e giù dal letto e ora s'è un po' assopito su un divano. Hai dato disposizioni per il pranzo di stasera?

AGRIPPA

 – No, Cesonia, è stato annullato.

CESONIA

 – Non ne sapevo nulla.

AGRIPPA

 – L'imperatore teme che si stia organizzando un complotto contro di lui e non vuole rischiare: fra i congiurati ci sarebbero alcuni che frequentavano il palazzo.

CESONIA

 – Caio Cesare non mi ha detto nulla per non farmi impensierire. Se alcuni congiurati frequentano il palazzo li conosco bene.

AGRIPPA

 – Meglio dire li conoscevo.

CESONIA

 – Ah, perché...

(fa un gesto significativo con la mano)

AGRIPPA

 – Loro, la famiglia, i lontani parenti e gli amici più intimi.

CESONIA

 – Dov'è mai la sicurezza in tempi agitati?

(appare Caligola)

 ... sei qua, mio amato, hai riposato ben poco.

CALIGOLA

 – E come potevo dormire in mezzo al frastuono?

AGRIPPA

 – Nessuno s'è mosso intorno al tuo appartamento.

CALIGOLA

 – Io non ho sentito che cavalli sfrenati, cozzare di spade e di scudi, grida di aiuto, rantoli di morte.

CESONIA

 – Un brutto sogno, mio amato...

(va a passargli la mano sul viso)

 ... cancelliamo le cattive visioni che hanno scavato rughe profonde sul volto... ora i fumi che avvolgevano la mente si stanno disperdendo, vero?

CALIGOLA

 – Come farei senza di te, Cesonia!

AGRIPPA

 – C'è una visita per te, Caio Cesare.

CALIGOLA

 – Una visita di chi?

AGRIPPA

 – Un vecchio che dice di chiamarsi Pompeo Lentulo.

CALIGOLA

 – Un nome che mi ricorda qualcuno, ma non so chi.

AGRIPPA

 – Se non vuoi vederlo, lo mando via.

CALIGOLA

 – Aspetta... Pompeo Lentulo... non ricordo bene...

AGRIPPA

 – Dice di essere stato un legionario della XVª di stanza sul Reno e che...

CALIGOLA

(in uno scatto di gioia)

 – ... sì, Pompeo Lentulo!... il mio caro Pompeo!

(corre per la sala)

 – ... dove s'è cacciato?!... avanti, che aspettate a farlo entrare?...

(Agrippa esce)

 ... subito qui lo voglio!...

(Pompeo entra, Caligola gli va incontro a braccia spalancate)

 ... Pompeo, vecchio mio, che gioia mi dà rivederti!...

(si abbracciano)

 ... caro Pompeo... quante volte ho pensato a te!...

(gli tocca i capelli bianchi)

 ... ma questi non c'erano una volta...

POMPEO

(si stacca dall'abbraccio)

 – Colpa dei Bàtavi, Caligola... ci sono saltati addosso all'improvviso in una notte buia come l'Averno... prima hanno spinto avanti un branco di tori infuriati per abbattere le palizzate del campo, e poi sono arrivati loro con il fuoco e i cavalli... non abbiamo neanche avuto il tempo di imbracciare lo scudo che li avevamo addosso... credevo che per me fosse finita, e invece il mattino dopo ero in piedi, con i capelli in questo stato, ma vivo.

CALIGOLA

 – Mio povero Pompeo, quante ne hai passate!

POMPEO

 – Ma anche tu, fatti vedere... anche tu sei cambiato, non sei più il mio Caligola di una volta.

CALIGOLA

 – Di dentro lo sono ancora. Come mai sei a Roma?

POMPEO

 – Ho lasciato la legione... ormai ho finito la ferma... vent'anni ho passato laggiù dove tuo padre Germanico ti aveva portato...

CALIGOLA

 – ... e, tornando a Roma, ti sei ricordato di me, caro Pompeo.

POMPEO

 – Sono qui di passaggio: devo raggiungere i dintorni di Capua dove mi hanno assegnato un pezzo di terra.

CALIGOLA

 – Da legionario a contadino, dunque?

POMPEO

 – Non capita a tutti di diventare imperatore.

(ride)

CALIGOLA

 – Non credo che ti piacerebbe la mia vita, sai?

POMPEO

 – Mi ricordo di quando avevi quattro o cinque anni e venivi a trovarmi davanti alla tenda dove facevo la guardia a tuo padre... eri appena saltato giù dal letto, a piedi nudi, ma l'erba era fradicia di brina, e allora ti infilavi i primi sandali che trovavi... i miei caliga... e così mi arrivavi davanti ciabattando... "Buongiorno Caligola" ti dicevo... e tu ridevi a crepapelle, e poi mi saltavi in braccio... ricordi?

CALIGOLA

 – Non l'ho mai dimenticato: sono i momenti più belli che conservo dentro di me, caro vecchio Pompeo. Sai che non permetto a nessuno di chiamarmi con quel soprannome? Ma per te farò un'eccezione.

POMPEO

 – Grazie, Caligola, non saprei come chiamarti altrimenti. Sai, io sono poco abituato alla vita di corte.

CALIGOLA

 – E' proprio quello che apprezzo in te, questa natura che non è stata contaminata da falsità furbesche e adulazioni. Ma tu a quest'ora avrai fame, vero?

POMPEO

 – Non proprio fame, ma qualcosa da masticare non lo rifiuto davvero. Chissà che squisitezze avrete qui al palazzo.

CALIGOLA

 – Aspetta allora...

(batte le mani e appare Agrippa)

 ... porta questo mio amico in cucina e fagli dare da mangiare e da bere, tutto quello che vuole e quanto ne vuole...

(Agrippa fa per partire ma Caligola lo richiama)

 ... un momento...

(lo conduce in disparte mentre Pompeo si guarda intorno ammirato)

 ... dopo, portalo giù... ma non deve soffrire, capito?

AGRIPPA

 – Va bene, Cesare.

CALIGOLA

 – E' il più caro amico che abbia, guai a voi se dovesse soffrire.

AGRIPPA

 – Lo affiderò al Sabino... non c'è neanche bisogno della corda: a lui bastano due dita per troncare il respiro. Non se ne accorgerà nemmeno.

CALIGOLA

 – Ci conto. Vai adesso.

(Agrippa esce con Pompeo. Cesonia che ha ascoltato il colloquio si avvicina a Caligola)

CESONIA

 – E' veramente un tuo amico?

CALIGOLA

 – Il più caro che abbia.

CESONIA

 – Perché vuoi farlo uccidere, allora?

CALIGOLA

 – Per punirmi, Cesonia, non l'hai capito?

CESONIA

 – Di che cosa vuoi punirti?

CALIGOLA

 – C'è bisogno di chiederlo? conosci la mia vita, no?

CESONIA

 – Devi difenderti da chi vuole spegnerla. E' legittimo.

CALIGOLA

 – Non è solo quello. Ieri il senatore Varrone aveva le lacrime agli occhi nel consegnarmi sua figlia di sedici anni.

CESONIA

 – La carica di revisore delle imposte gliel'asciugherà quegli occhi, stai certo. E' lui che dovrebbe punirsi.

CALIGOLA

 – E non ti sembra una colpa la mia che approfitto delle bassezze umane: la paura, l'ambizione, l'ingordigia?

CESONIA

 – E Pompeo Lentulo che per vent'anni ha servito fedelmente la patria alla legione?

CALIGOLA

 – E' l'occasione unica per punirmi, non l'hai capito, Cesonia? lui conserva i ricordi più belli della mia infanzia felice... mi ama, e anch'io lo amo... devo strapparmelo dal cuore per provare quelle sofferenze che ho meritato e che è giusto debba sopportare. Il suo affetto è una cosa mia e devo privarmene. Chi potrebbe mai darmi una simile sofferenza? chi si azzarda ad alzare un dito contro di me?... In quale altro modo potrei cercare di riportare un po' di giustizia? uccidendo Varrone? aumenterei la punizione che fra poco dovrà sopportare sua figlia, e per me sarebbe come schiacciare un verme sotto il calzare. Non è facile trovare una punizione per me. Che castigo si può dare all'imperatore che può tutto, che è padrone di tutto? qualunque cosa mi venga tolta non è niente davanti a ciò che mi resta. L'armonia che gli dèi hanno disposto per l'uomo distribuendo gioie e dolori, per me non ha valore: solo ombre nella mia vita che si dileguano in un attimo. Nessuna vera sofferenza, mai. Posso per sempre restare escluso dalle leggi dell'umana esistenza? posso continuare ad approfittare della fortuna per violare ciò che gli dèi hanno stabilito per tutti?

CESONIA

 – Pensi solo a te stesso e non a quel poveretto che ha passato la vita ai confini dell'impero, in pace e in guerra. Bella ricompensa che ha ricevuto!

CALIGOLA

 – E quella che gli ha riservato lo stato? un misero ritaglio di terra dal quale estrarre a fatica un pezzo di pane, nell'ipotesi migliore.

CESONIA

 – Sempre preferibile alla sorte che tu hai deciso per lui.

CALIGOLA

 – Ho dato ordine perché avvenga nel modo più dolce. Non deve assolutamente soffrire, povero Pompeo. Il male che provo io deve bastare.

CESONIA

 – Ma allora, se per punirti uccidi chi ti ama, anch'io devo sentirmi in pericolo?

CALIGOLA

 – No, Cesonia. Il tuo amore non è affogato nel ricordo, come quello di Pompeo, non più utile ormai se non a rallegrare il cuore e la mente. Il tuo sentimento è vivo e presente...

(la abbraccia spingendola verso un divano)

 ... e non posso privarmene...

CESONIA

(sciogliendosi dall'abbraccio)

 – Un momento, Caio Cesare, non c'è la figlia del senatore Varrone che ti aspetta?

CALIGOLA

 – Lasciamola aspettare, Cesonia: avrà il tempo di meditare sulle sue colpe e sulla punizione che sta per colpirla.

 

 

 

(Buio)


 

 

 

 

 

 

 

SECONDA PARTE

 

 

 

      III QUADRO

 

(In scena Chèrea e Marco.)

MARCO

 – Non è possibile!... non ci credo!

CHEREA

 – Eppure, ti assicuro...

MARCO

(troncandogli la parola)

 – Mi meraviglio che tu presti fede a queste chiacchiere assurde.

CHEREA

 – Chi me l'ha riferito è degno del massimo rispetto.

MARCO

 – Te l'hanno riferito, dunque non eri presente.

CHEREA

 – Non fa differenza. Per me la parola di gente seria e onorata è sacra.

MARCO

 – L'odio è arrivato a tal punto che non riusciamo più a distinguere le persone che ne sono accecate dalle altre, così come ciò che è veramente accaduto da ciò che vorremmo accadesse.

CHEREA

 – E tu, Marco, credi di fare accettare facilmente la tua incredulità?

MARCO

 – Che cosa vuoi dire?

CHEREA

 – Non lavora dentro di te la stima per la persona?

MARCO

 – Non c'entra quello, io...

CHEREA

(troncandogli la parola)

 – ... oppure una soggezione che ti avvince, involontaria magari, ma operante?

MARCO

 – Solo perché rifiuto i pettegolezzi e le fantasie della Suburra?

CHEREA

 – Insomma, di che cosa hai bisogno per incominciare a credere?

MARCO

 – Solo della parola di uno che ha visto con i suoi occhi, e non riferisca ciò a cui altri hanno assistito.

CHEREA

 – Non sarà difficile trovarlo, la Curia sarà stata piena di senatori…

(con uno sguardo fuori scena)

 ... eccone uno che arriva e che forse era presente.

SENECA

(entra sull'ultima frase e legge sul viso dei due il loro interrogativo. Un attimo di silenzio)

 – Sì, c'ero.

CHEREA

 – Puoi confermare, dunque!

SENECA

 – Tutto quello che ho visto e ascoltato.

CHEREA

 – Parla, dunque!

SENECA

 – E' stato a metà mattinata, Marone aveva incominciato a illustrare le modifiche da apportare alla legge Calpurnia, quando la porta di fondo s'è spalancata ed è apparso lui, l'imperatore, a cavallo...

MARCO

 – A cavallo?!

SENECA

 – ... su Incitato, il suo preferito. Ha mosso qualche giravolta nel corridoio di centro, a testa alta e impettito per farsi ammirare, senza curarsi dello sbigottimento generale. Finalmente qualcuno ha gridato "Salute a te, Caio Cesare", e tutti hanno fatto coro nel saluto. Caio, a passo rallentato, ha raggiunto il centro della sala, qui è sceso da cavallo. s'è avvicinato alla prima fila degli scanni e ha cacciato via Tullio Pisone, il vecchio: "questo da oggi in poi" ha detto "sarà il posto di Incitato che entra a far parte della Cura Julia..."

MARCO

 – Senatore il suo cavallo?!

CHEREA

 – Non è quello che anch'io ti avevo raccontato? arrivi a crederci adesso?

MARCO

 – No, non ancora... ho ascoltato quello che Seneca ha detto, ma non l'ho afferrato bene... perché non esistono parole per descrivere una stranezza simile... sono stordito e sconcertato...

CHEREA

 – Non sei il solo, Marco.

MARCO

 – E come ha cercato di spiegare?

SENECA

 – Ha proposto un senatoconsulto, forte del privilegio che il divino Augusto ha concesso agli imperatori.

MARCO

 – Concesso perché un cavallo venisse eletto senatore?

SENECA

 – Poi è passato a presentare Incitato: "E'giusto" ha detto "che cominciate a conoscere il vostro nuovo collega. Incitato possiede la prima dote necessaria per un senatore: l'onorabilità. Pensate, su dodici corse alle quali finora l'ho iscritto, le ha vinte tutte e dodici. E' intelligentissimo e obbedisce immediatamente ai miei ordini, e questo potrebbe bastare per descrivere le sue virtù. E' vero, non può parlare, ma questo non rappresenta un ostacolo: anche Publio Sardonio, al quale ho fatto mozzare la lingua perché spargeva infamità sul mio conto, non può parlare. Eppure a nessuno è venuto in mente di cacciarlo dal senato. Incitato ascolterà pazientemente tutti i vostri discorsi, senza mai replicare, neppure con un nitrito, e questo credo costituisca un innegabile vantaggio. Potrà però esercitare la principale funzione dei senatori: partecipare al voto, secondo il nostro sistema, ponendosi cioè alle spalle del presidente, a destra se il voto è affermativo, o a sinistra se è negativo."

(viene avanti Caligola che prima si era tenuto discosto)

CALIGOLA

 – Un momento... la presentazione non è finita qui. Ho anche ricordato che Incitato, in rispetto alle disposizioni vigenti, non si unirà mai in matrimonio con una liberta, non si darà alla speculazione, non concorrerà agli appalti pubblici, non possederà mai vascelli da carico e nemmeno effettuerà operazioni di prestito con interesse.

SENECA

 – Perdonami, Caio, questo punto l'avevo dimenticato.

MARCO

 – Ora però, Caio Cesare, dovrai chiarirci che cosa hai voluto ottenere con questa trovata. Noi sappiamo che ogni tua azione è sempre motivata da una forte necessità e condizionata dal benessere del popolo romano e dalla sicurezza del nostro impero.

CALIGOLA

 – Ottima la tua precisazione, Marco, forse un po' adulatoria, ma vera nella sostanza. Nemmeno tu, Seneca, sai perché mi sono comportato in quel modo?

SENECA

 – Ho alcuni sospetti, uno dei quali è quasi una certezza, ma non posso dire di avere risolto completamente l'interrogativo.

CALIGOLA

 – Ancora dei dubbi, e io che credevo che tutto fosse chiaro, e superfluo dare ulteriori spiegazioni.

SENECA

 – Non hai questo obbligo, Cesare, anche se la curiosità è forte, la sopporterò se hai deciso di tacere.

CALIGOLA

 – E perché mai? ci tengo che il fine delle mie azioni venga reso pubblico. E' proprio attraverso la sua divulgazione che conto di far conoscere il mio carattere e di farmi amare.

MARCO

 – Non ce n'è bisogno, Caio, il popolo già ti ama.

CALIGOLA

 – Ahi, ahi, Marco, cosa sono queste blandizie da cortigiano? io non ti offro la mia amicizia qui al palazzo perché ti comporti come l'ultimo servo impaurito. Da te come dagli altri amici voglio verità e non false lusinghe.

MARCO

 – Perdonami se le mie parole ti sono dispiaciute. Ho avuto il torto di allargare anche agli altri un sentimento personale.

CALIGOLA

 – Seneca ha capito che c'è una ragione per ciò che ho fatto stamani, devo dargliene atto.

SENECA

 – E non c'è forse una ragione sotto tutto quello che facciamo?

CALIGOLA

 – La tua intuizione non è sufficiente. Bisogna valutarla questa ragione per ritenerla valida o meno.

SENECA

 – Proprio quello che cercavo di fare con i miei sospetti.

CALIGOLA

 – Avresti dovuto arrivarci con più agevolezza. Tutti voi avreste dovuto arrivarci. Non l'avete fatto, e questo getta una luce cattiva su tutta l'operazione che avevo architettato. Sono profondamente deluso.

MARCO

 – Perdonaci, Caio, di non essere stati all'altezza della tua aspettativa. Sono profondamente umiliato e vorrei che tu mi indicassi il modo di rimediare.

CALIGOLA

 – Troppo tardi ormai, se non l'avete scoperta voi la ragione che sta nel fondo, come posso sperare che ci arrivino gli altri? La mia azione è fallita e devo rassegnarmi.

SENECA

 – Non è detto. A volte la mente dei più semplici è fresca e vivace. La nostra invece, appesantita a volte da inutili bagagli culturali, pecca di immaginazione.

CALIGOLA

 – Vi siete mai chiesti a chi è affidato il vero potere a Roma? all'imperatore, ai consoli, ai rappresentanti del popolo? No! Lo stato più potente del mondo è affidato alle mani di un'accozzaglia di vecchi rimbecilliti: il senato.

SENECA

 – Veramente il divo Augusto aveva attenuato il potere dei senatori.

CALIGOLA

 – Ma con Tiberio tutto è tornato come prima, o quasi. E io oggi devo affrontare un branco di seicento decrepiti rimbambiti che vogliono decidere il destino di Roma.

SENECA

 – Non ci sono più dubbi. Quello di stamani è un episodio della guerra che combatti contro di loro.

CHEREA

 – Un cavallo che fa parte del senato è il segno del tuo disprezzo per la categoria dei senatori.

CALIGOLA

 – L'hai detto, Chèrea! "Senatus populusque romanum" è venuta l'ora di strappar via questa firma dai nostri atti ufficiali.

SENECA

 – E' una lotta difficile quella che hai intrapreso, Cesare: il popolo romano è geloso delle sue tradizioni. Non riuscirai ad assicurarti quello a cui hai sempre aspirato: un potere assoluto da non dividere con nessuno.

CALIGOLA

 – Da non dividere con gente corrotta e incapace, soprattutto. Ti rendi conto di che cosa è diventato oggi il senato? un infame mercato dove puoi comprare liberamente ciò che ti serve: una carica pubblica, un appalto, l'assoluzione di un processo a tuo carico, la condanna del tuo nemico.

SENECA

 – Non stai denigrando l'operato del tuo governo?

CALIGOLA

 – A me vorresti attribuire queste infamie?

SENECA

 – A chi detiene il potere di farle cessare. Ma il tuo disegno è evidente: lasciare libero corso alla corruzione perché ogni cittadino possa rendersene conto.

CALIGOLA

 – Un altro episodio della mia guerra. Come te ne sei accorto?

SENECA

 – Basta conoscere le disposizioni che emani. L'ultima, per esempio, quella che obbliga le mogli dei senatori a frequentare il bordello.

CALIGOLA

 – Le più giovani e le più belle, naturalmente. Io che le ho conosciute di persona, mi sono accorto della loro ignoranza nella tecnica amatoria, e le ho mandate a scuola.

CHEREA

 – In un bordello?!

CALIGOLA

 – E dove, se no? Non c'è migliore insegnante di Pirallide, per rivelare il modo di far felice un uomo. Non sei del mio parere?

CHEREA

 – Non mi permetto di contraddirti, Cesare, però ti confesso che sono oltremodo felice di non essere sposato.

(un attimo di buio)

 

 

 

      IV QUADRO

 

(E' notte. Caligola, Cesonia e Marco entrano dal fondo: vengono da un banchetto. Caligola si ferma a parlare con qualcuno al di là dell'uscita.)

CALIGOLA

 – Non ho più bisogno di voi.

(rumori metallici. Caligola raggiunge i due che sono venuti avanti. Sbuffa rumorosamente)

Non si respira stanotte qui a Roma!

CESONIA

 – Sul lago di Nemi, invece, c'era un fresco delizioso.

MARCO

 – Sembrava che la nave si trovasse al largo, in una giornata di brezza. A chiudere gli occhi avevi l'impressione di navigare.

CESONIA

 – E' stata una buona idea far svolgere il pranzo sull'acqua. Così faremo anche per i prossimi, almeno finché dura il caldo.

MARCO

 – Se ne parlerà a lungo di questo banchetto. Nessuno degli invitati aveva mai partecipato a una riunione così suntuosa, i loro sguardi erano pieni di meraviglia e di ammirazione.

CALIGOLA

 – E le stelle che riempivano il cielo, ne avevate mai viste così tante?

MARCO

 – Sì, Cesare: una magnifica notte stellata. E adesso, purtroppo, andremo a stenderci al buio nelle nostre camere.

CESONIA

 – Bisognerebbe farli trasportare all'aperto i nostri letti.

CALIGOLA

 – In mezzo alle stelle.

CESONIA

 – Anche. Ma soprattutto per respirare meglio.

MARCO

 – E per farci divorare dagli insetti.

CESONIA

 – A rammentare il letto mi vien subito sonno... non hai voglia di riposare, mio amato?

CALIGOLA

 – Mi fermerò ancora un po' a parlare con Marco... se anche lui ne ha voglia.

MARCO

 – Io sono sempre a tua disposizione, Caio Cesare, anche quando decidi di restare sveglio.

CALIGOLA

 – Non io ho deciso di vegliare, ma il sonno che non vuole venire ha deciso per me.

CESONIA

 – A più tardi, allora, mio amato.

(esce)

CALIGOLA

 – Sai che cos'è il sonno, Marco? una tregua all'improba fatica del vivere, una pausa eguale per tutti senza differenze di censo o di beni: è l'unica generosa concessione che ci hanno fatto gli dèi. Ma è nelle loro mani il momento di elargirla e a volte tarda a venire. Non c'è niente di peggio che aspettarla con gli occhi spalancati nel buio.

MARCO

 – Proprio allora tutta la vita che hai trascorso ti torna davanti e soffri di nuovo per gli errori che hai commesso.

CALIGOLA

 – La propria coscienza è un tribunale che non concede mai grazia. Come dice Seneca.

MARCO

 – Uno dei soliti giudizi di Seneca così pieni di severità. Riesce a farti sentire colpevole anche se non hai fatto nulla di male.

CALIGOLA

 – Per quello, Seneca dice anche che colpevoli siamo tutti. Ma allora, non è lo stesso affermare che tutti siamo innocenti? L'importante, secondo me, è accertare che ogni nostro delitto abbia nel fondo una ragione e una logica.

MARCO

 – Quando non sono la sorte o il caso a decidere. Allora la responsabilità non è nostra.

CALIGOLA

 – Come per la tragedia di Teutoburgo sotto l'impero del divo Augusto, quando tre legioni con relativa cavalleria al comando di Quintiliano Varo e sei coorti sono state completamente distrutte.

MARCO

 – Colpa della sorte malvagia.

CALIGOLA

 – E sotto Tiberio, non c'è stato il crollo dell'anfiteatro di Fidene, durante uno spettacolo, con oltre ventimila morti?

MARCO

 – Opera anche questa di un caso infausto.

CALIGOLA

 – Di che si lamenta, allora, il popolo di Roma? sotto il mio impero non gli è toccato sopportare né massacri, né stragi, ha dovuto soltanto accettare un principe come me determinato a difendere il suo diritto ad esistere contro congiure e complotti esistenti o presunti.

MARCO

 – E' così, Cesare! qualunque azione tu abbia commesso è completamente giustificata.

CALIGOLA

(improvvisamente con voce dolorosa)

 – O forse no, Marco, forse le mie colpe non hanno nessuna attenuante e dovrò risponderne davanti agli uomini e agli dèi.

MARCO

 – E quale potrà essere il giudizio? tu non hai spinto in guerra le nostre legioni.

CALIGOLA

 – Questo no, Marco!

MARCO

 – Non hai invaso altri paesi massacrando gli abitanti e saccheggiando i loro beni.

CALIGOLA

 – No, non l'ho fatto!

MARCO

 – E non credi che tutto questo costituisca uno sgravio decisivo?

CALIGOLA

 – Hai parlato di ciò che non ho fatto, ma è ciò che ho fatto che pesa.

MARCO

 – Per quello esistono motivi che nessuno potrà mai confutare.

CALIGOLA

(ancora dolente)

 – E se invece non bastassero? se nessuno volesse tenerne conto?!

MARCO

 – Sarebbe morta la giustizia, e davanti a chi, allora, potresti essere chiamato a rispondere?

(un attimo di pausa)

Perché queste domande, Caio Cesare, tu hai la piena certezza del tuo operato, non è vero?

CALIGOLA

 – Provo a entrare nella testa dei miei nemici e a ragionare come loro.

MARCO

 – Non mettere a rischio la tranquillità della tua coscienza.

CALIGOLA

 – No, hai ragione..

(va davanti a un'uscita)

 ... adesso si respira, finalmente! s'è alzata un'aria fresca che viene dal mare... senti? c'è dentro la distesa infinita delle onde, i viaggi, le avventure, l'ignoto... adesso è più facile ritrovare la calma e la sicurezza di dentro... sì, i dubbi di prima sono scomparsi... non c'è più niente... dileguati... e sono pronto ad affrontare i miei impegni con rinata fermezza...

(appoggia la fronte sullo spigolo della porta, poi, con un lamento)

 ... no, Marco, no, non posso... Se non bastassero, mi domando ancora, non avrei più nessuna giustificazione e resterei nudo accanto ai miei delitti.

(si stacca dalla porta, muove qualche passo, riprende il tono normale)

Ma chi deve giudicarmi, dopo tutto? Chi oserebbe mai muovermi un rimprovero o un appunto? Io sono l'imperatore e nessuno può giudicarmi, mai!

MARCO

 – Ora sì che ti riconosco, Cesare! ritrovo la tua natura intatta.

CALIGOLA

 – E' il peggior guaio che mi possa capitare: ecco quello che direbbe Seneca a questo punto.

MARCO

 – Seneca, a mio parere, influenza troppo i tuoi pensieri con la sua filosofia.

CALIGOLA

 – Più che filosofo, Seneca è un moralista. Costruisce il suo mondo ideale di virtù nel quale neppure lui è capace di entrare.

(sbadiglia)

Credo che sia venuta l'ora di raggiungere il letto e di arrendersi al sonno.

MARCO

 – Buon riposo, Caio Cesare, anch'io vado a casa.

CALIGOLA

 – Fatti accompagnare dalla scorta. Le vie di Roma non sono sicure a quest'ora.

MARCO

 – Sarà fatto... a domani... o meglio, a più tardi.

(escono tutti e due. Un attimo di buio)

 

 

 

      V QUADRO

 

(Caligola solo in scena. Entra Cesonia)

CESONIA

 – Sei qui, mio amato... ho allungato un piede dalla tua parte e non ti ho trovato, allora ho frugato con la mano e ho avuto la conferma che non c'eri.

CALIGOLA

 – Ho sentito cantare un gallo: era l'alba e mi sono alzato.

CESONIA

 – Se non fossi stato sveglio non l'avresti sentito.

CALIGOLA

 – E sarebbe stato un peccato: è bello sentire i galli cantare. Incomincia uno solo ancora nel buio, gli altri lo seguono, ma non subito, come se volessero essere certi che il giorno sta per levarsi. Poi il coro incomincia, ma non dura a lungo: il sole è ancora basso nel cielo eppure i canti si spengono.

CESONIA

 – Anche i galli incominciano a beccare il cibo qua e là.

CALIGOLA

 – Eppure siamo a Roma e non in campagna.

CESONIA

 – Ma ci sono giardini e orti un po' dovunque, lo sai.

CALIGOLA

 – Darò disposizioni perché vengano allevati più galli.

CESONIA

 – Perché eri sveglio, te lo sei chiesto? il pasto di ieri sera era troppo pesante, mio amato?

CALIGOLA

 – Di pesanti c'erano i discorsi che si sono fatti dopo il pranzo.

CESONIA

 – E' stato quando Seneca ha criticato la tua decisione di farti divinizzare. A nessuno è mai toccata la divinizzazione da vivo. Augusto è stato divinizzato quand'era morto.

CALIGOLA

 – I principi orientali vengono considerati divinità anche da vivi, ma qui siamo a Roma, purtroppo. Seneca non ha torto: dagli dèi il popolo si aspetta interventi benefici. Solo da Giove è disposto ad accettare la collera.

CESONIA

 – Lasci perdere la divinizzazione, allora?

CALIGOLA

 – Ne ho bisogno, Cesonia, per non sottoporre i miei atti al giudizio dei mortali.

CESONIA

 – E' un'assoluzione completa che cerchi?

CALIGOLA

 – L'hai capito, vero?

CESONIA

 – L'unica difficoltà è che la gente creda alla tua natura trascendente.

CALIGOLA

 – Pensi che sia molto difficile trovare qualcuno che giuri di avermi veduto a colloquio con Giove?

CESONIA

 – E' difficile però che quel tizio, interrogato a dovere dai tuoi nemici, non finisca per confondersi e raccontare la verità.

CALIGOLA

 – E tu credi che io lo lascerò in vita dopo la sua dichiarazione?

CESONIA

 – Apparirebbe chiara la tua paura di una sua ritrattazione.

CALIGOLA

 – No. Darebbero la colpa a Giove che l'ha punito per la rivelazione di averlo visto a colloquio con me.

CESONIA

 – Ben trovata, mio amato. La credulità popolare farà il resto.

CALIGOLA

 – Mi farò erigere un tempio sul Palatino, intitolato a Giove Laziale. Farò collocare una mia statua d'oro nell'interno e stabilirò il calendario dei festeggiamenti.

CESONIA

 – E per gli interventi benefici puoi continuare, ogni tanto, a gettare al popolo manciate di monete d'oro e d'argento.

CALIGOLA

 – Ci sono decine di morti e di feriti ogni volta.

CESONIA

 – E' la sfrenata avidità della plebe che è colpevole, non tu.

CALIGOLA

 – Seneca dice che buon principe è colui che evita di spingere il popolo agli eccessi.

CESONIA

 – Lo sai, mio amato, che stai un po' troppo ad ascoltare le parole di Seneca?

CALIGOLA

 – Non ti è simpatico, vero? vuoi che lo faccia uccidere?

CESONIA

 – E con chi faresti poi le tue lunghe discussioni?

CALIGOLA

 – Sono quelle che mi tengono sveglio di notte. La settimana scorsa, per esempio, mi ha lanciato un sasso, e non ho ancora potuto accertare i danni che ha fatto.

CESONIA

 – Che cosa ti ha detto?

CALIGOLA

 – Che il male non è solo errore, ma specialmente dolore.

CESONIA

 – E tu ci pensi da una settimana?

CALIGOLA

 – Una settimana e non ho risolto nulla.

CESONIA

 – Se è vero che il male porta dolore, dovresti provare le sofferenze più atroci in questi giorni: con la scoperta del complotto hai dovuto far giustiziare congiurati, parenti e amici... fanno all'incirca trecento persone... o sbaglio?

CALIGOLA

 – Può darsi qualcuno in più.

CESONIA

 – E il dolore non l'hai provato, vero?

CALIGOLA

 – Forse perché sbarazzarsi di quegli individui non era proprio un male.

CESONIA

 – Se il sistema funzionasse, pensa un po', si potrebbe fare a meno di indagini e di processi: basterebbe eseguire le sentenze e valutare il dolore che si prova, per scoprire i colpevoli.

CALIGOLA

 – E se invece non si sente nessun dolore, e quindi ci troviamo in assenza di colpevolezza, come si fa a sentenza già eseguita?

CESONIA

 – Un errore come un altro. Ma in fondo sarebbero stati colpiti degli indiziati.

CALIGOLA

 – Questo è vero, ma forse Seneca non sarebbe soddisfatto.

AGRIPPA

(entrando)

 – L'attore Mnester chiede di essere ricevuto, divino.

CALIGOLA

 – Avanti pure, avanti, caro Mnester!...

(entra Mnester e Caligola lo abbraccia. Agrippa esce. Caligola a Cesonia)

 ... è la mia lezione di danza.

MNESTER

 – Salute a te, divino.

CALIGOLA

 – No, Mnester, dovrei dartelo io a te quest'appellativo, a te così sublime nella tua arte.

MNESTER

 – Come desideri, Caio Cesare.

CALIGOLA

 – Occorre una flautista...

(fa per battere le mani, ma Mnester ferma il suo gesto)

MNESTER

 – No, oggi non ce n'è bisogno. Tratteremo dei gesti che si compiono anche fuori dalla danza, in tutte le necessità e circostanze.

CALIGOLA

 – Ti ascolto, Mnester.

MNESTER

 – Osservarmi devi, piuttosto...

(porta la mano destra al fianco sinistro e la solleva lentamente a compiere un arco)

 ... stai parlando al senato, ed ecco il filo dell'orazione che si svolge lento ad avvincere i senatori... così, vedi?... l'eloquenza sale con la mano nell'aria... trema di indignazione... erompe nel trionfo, sempre più su, quasi a raggiungere le vette supreme... la testa e le spalle devono partecipare... così... il petto si gonfia di sdegno o di esultanza e le dita si tendono ad afferrare qualcosa di invisibile, ma che tutti devono avere davanti agli occhi: la giustizia o la gloria...

CALIGOLA

 – E nei momenti di condanna, quando c'è da esprimere dissenso violento o disgusto?

MNESTER

 – Allora mani verso il basso, decise... così... colpi violenti carichi di indignazione, a significare che nulla è accettato o ammesso alla discussione... è consigliabile anche uno scatto del collo che porti la testa a impennarsi e a distanziarsi finalmente da ciò che giace ai tuoi piedi.

CALIGOLA

(esegue i gesti corretto da Mnester, poi a Cesonia)

 – ... ti sembro convincente, Cesonia?

CESONIA

 – E' un'orazione trascinante anche senza parole. Ma non è solo in senato che devi parlare, c'è anche il momento di arringare la folla.

MNESTER

 – E' proprio allora che il gesto deve assumere una magnificenza solenne... il popolo è radunato qui davanti, in attesa della parola del suo imperatore...

(esegue i movimenti)

 ... le braccia vanno spalancate smisuratamente per accogliere tutti... così... ma non basta, bisogna a un certo punto eseguire il movimento dello scavo, non tanto per offrirsi al popolo, ma per dare l'impressione della ricerca... così... in modo che il più umile dei cittadini possa sentirsi sollevato dall'oscurità in cui si trova e, stretto nelle braccia del principe, cullato, accarezzato, protetto...

(Caligola esegue i gesti e Mnester lo corregge)

 ... sì, un po' più in alto... così... le mani spalancate sempre: significano lealtà, onestà, voglia di operare... e anche umiltà, se accompagnate da un movimento del capo e della spalla...

CALIGOLA

 – Stupefacente quante cose posso dire con queste mani!

AGRIPPA

(entrando)

 – Un gruppo di senatori ti chiede un colloquio, divino.

CALIGOLA

 – Aspettavo la loro venuta, sono qui per pretendere il ricavato dell'asta dei beni degli esiliati, ma le casse sono vuote...

(ad Agrippa)

 ... vai a dir loro che l'imperatore non riceve...

(mentre Agrippa sta per uscire)

 ... no, aspetta... falli passare, invece.

(Agrippa esce)

CESONIA

 – E che cosa risponderai quando ti chiederanno il denaro?

CALIGOLA

 – Risponderò con le mani, come mi ha insegnato Mnester.

(un attimo di buio)

 

 

 

      VI QUADRO

 

(Soldati che attraversano la scena con la spada sguainata, e che poi si dispongono accanto alla porta dell'appartamento imperiale. Entrano Seneca e Marco.)

SENECA

 – Ma che cosa sta accadendo?

MARCO

 – E chi lo sa?

(indica i soldati)

Loro non parlano nemmeno sotto tortura. All'ingresso del palazzo mi hanno perquisito due volte.

(entra Agrippa)

SENECA

 – Vuoi dirci, Agrippa, che cosa succede?

AGRIPPA

 – Ora posso parlare: la congiura che era stata scoperta, ora è finalmente stroncata.

MARCO

 – Una nuova congiura?!

AGRIPPA

 – Sì, l'ultimo complotto contro il nostro imperatore.

MARCO

 – Ed è fallito?

AGRIPPA

 – Completamente. Fra i congiurati c'erano anche Livilla, Agrippina, suo marito Lepido e Cornelio Lentulo Getulico.

SENECA

 – Il comandante delle armate in Germania?

AGRIPPA

 – Proprio lui.

SENECA

 – Se il colpo non fosse fallito, oggi avremmo un nuovo imperatore.

MARCO

 – Questo è sicuro, Seneca.

SENECA

 – E gli autori del complotto sono stati tutti catturati?

AGRIPPA

 – Fino all'ultimo.

SENECA

 – Inutile chiederti che fine hanno fatto, vero?

AGRIPPA

 – Sono state risparmiate Livilla e Agrippina perché sorelle di Caio Cesare. Per loro si parla di esilio a Ponza.

MARCO

 – E gli altri?

AGRIPPA

 – Morti con le loro famiglie, i lontani parenti e gli amici più intimi, secondo l'uso corrente.

MARCO

 – E' duro garantirsi la sicurezza in questi tempi.

SENECA

 – Davvero di sicurezza si tratta?

MARCO

 – Una dura repressione è necessaria per scoraggiare le cattive intenzioni.

SENECA

 – Di sicurezza parlavo. Come si ottiene, allungando la catena delle vendette e delle trasgressioni?

MARCO

 – Era possibile agire in altro modo?

(il discorso si interrompe per l'arrivo di Caligola)

AGRIPPA

 – Salute a te, divino Caio Cesare.

MARCO

 – Salute a te, divino.

SENECA

 – Salute.

CALIGOLA

 – Mi dispiace avervi interrotto. Era una discussione importante, a giudicare dal tono.

MARCO

 – Trascurabile, invece: commentavamo lo spettacolo dei gladiatori al circo.

CALIGOLA

 – E in momenti così gravi per la mia persona e per l'impero, vi perdevate a parlare di gladiatori?

SENECA

 – Basta con queste pietose bugie! Che cosa vogliamo ottenere, alleggerire una tensione che c'è nell'aria e nelle menti? Parliamo sinceramente: Caio Cesare non aspetta che questo.

CALIGOLA

 – Ben detto, Seneca. La tua filosofia è sempre vincente.

MARCO

 – Perdonami, divino Caio Cesare, non era la nostra discussione che volevo nasconderti, ma solo i ricordi sgradevoli che da essa venivano fuori.

CALIGOLA

 – Quelli non puoi ricacciarli dentro. Ci sono altre questioni di cui dobbiamo occuparci. Perché è fallito l'attentato, per la solerzia dei miei amici o l'ingenuità dei miei nemici? E dopo: è stata troppo severa la mia risposta? Ecco i quesiti da risolvere.

MARCO

 – Troppo severa perché? quanto c'è mancato che tu ora non fossi più con noi? Gli dèi ti hanno protetto.

SENECA

 – Non gli dèi, ma forse l'indecisione fra i congiurati, com'è accaduto altre volte; ti ha salvato il loro probabile terrore al momento di colpirti.

CALIGOLA

 – Pensate allora che la mia risposta è stata troppo dura, che avrei dovuto tener conto di certe attenuanti?

MARCO

 – No, divino Cesare. La loro colpa era grave. Alla legge sulla lesa maestà è stato fatto ricorso anche in casi molto più lievi.

CALIGOLA

 – Ho fatto appena in tempo a reintrodurla quella legge che Tiberio ha applicato così largamente. L'avevo abolita appena arrivato al potere, ma il popolo non meritava tanta indulgenza. Avete visto?

MARCO

 – Non la meritava.

CALIGOLA

 – E' stata una giusta repressione la mia?

MARCO

 – Giusta, divino Caio Cesare.

CALIGOLA

 – E tu, Seneca, che cosa ne dici?

SENECA

 – Perché mi rivolgi questa domanda? Sai bene che, in ogni caso, io prediligo l'indulgenza.

CALIGOLA

 – Su questo punto non ti comprendo più, Seneca. Tu credi nella sopravvivenza dopo la morte, quindi dovresti rallegrarti per tutti coloro che io spingo verso una nuova vita, forse migliore di questa. La dottrina e l'esempio di Socrate che tu ami molto non ti bastano?

SENECA

 – Socrate non ha voluto difendersi dalle accuse e nemmeno ha cercato di sfuggire alla condanna: ha bevuto da solo il veleno mortale. Anche tu offri simili concessioni alle tue vittime?

CALIGOLA

 – Certo, Seneca, non lo sai? A tutti consegno sempre un pugnale per aprirsi da soli le vene.

MARCO

 – Anche questa volta i congiurati hanno avuto quello che meritavano: cercavano di dare la morte e l'hanno ricevuta. Niente di più adeguato e di più giusto. Non è necessario soffermarci ancora su questo argomento.

CALIGOLA

 – No, non è necessario. Né su questo, né su altri del genere: le parole sono piene di aria, ve ne siete mai accorti? solo gli atti hanno un corpo e rimangono. Che cosa resta delle parole, invece? neppure il loro significato conservano se mancano il tono, l'enfasi, la passione a sostenerle perché non si affloscino su loro stesse e appaiano inutili e inadeguate. Atti ci vogliono, dunque. Prepara un sacrificio agli dèi, Agrippa, per ringraziarli del pericolo scampato...

AGRIPPA

 – Lo preparerò subito.

MARCO

 – Verrò anch'io con te.

(escono Marco e Agrippa. Entra Cesonia con uno specchio nel quale si sta ammirando)

CALIGOLA

 – ... e occupiamoci di cose più liete, ora che è giunta Cesonia.

(a Cesonia)

Hai già dato disposizioni per il pranzo di stasera?

CESONIA

 – No, mio amato, mi è stato detto che tu l'avevi annullato.

CALIGOLA

 – Quando era ancora in corso il complotto, ma ora i congiurati sono stati rintracciati, a uno a uno, e hanno pagato per la loro colpa. E' scomparso ogni pericolo, ormai.

SENECA

 – Ne sei ben certo, Caio?

CALIGOLA

 – Sì in questo momento, e mi basta. Si vive solo per attimi, non lo sai? tutte le gioie che abbiamo conosciuto o che aneliamo conoscere, si racchiudono in pochi istanti. E stasera voglio festeggiarla come si deve questa occasione fortunata.

(a Cesonia)

Voglio un pranzo sontuoso con i cibi più rari, le flautiste più brave, le danzatrici più snodate! Vai a provvedere, Cesonia.

(Cesonia esce)

SENECA

 – E credi di trovarlo là in mezzo quello che cerchi?

CALIGOLA

(con voce dolente)

 – Lo sai, allora... l'hai capito anche tu?

SENECA

 – Come si fa a non capirlo, se frughi di continuo in mezzo ai cadaveri o alla lussuria?

CALIGOLA

(dolorosamente)

 – Lo so che non c'è, Seneca, lo so.

SENECA

 – E chi te l'ha detto?

CALIGOLA

 – Si sarebbe mostrato almeno un poco: non mi sono mai stancato di cercarlo. Se non sono riuscito a trovarlo, io che posso tutto, è segno che non esiste.

SENECA

 – Su te stesso, prima di tutto, lo devi cercare.

CALIGOLA

(afferra lo specchio che ha lasciato Cesonia e lo porta al viso)

 – E dove? su questo cranio senza capelli... oppure in questi occhi incavati o nelle guance cascanti?

SENECA

 – Sono i segni di una vita smodata, di un libertinaggio senza freni.

CALIGOLA

(toccandosi il volto)

 – Cosa credi che possa esserci qua sopra?

SENECA

 – Su te stesso, prima di tutto, ho detto. Poi, dietro la tua immagine, devi cercare più a fondo, dove lo specchio non arriva a riflettere.

CALIGOLA

 – L'ho già fatto, nulla neanche lì: qualche concetto morale sbiadito e confuso, nient'altro.

AGRIPPA

(entrando)

 – Tutto è pronto per il sacrificio, divino Caio Cesare.

CALIGOLA

 – Andiamo, Seneca, vieni con noi... anche se tu non credi negli dèi.

SENECA

 – E tu, Cesare, sei sicuro di crederci?

(Un attimo di buio. Rientra Caligola con la toga vistosamente macchiata di rosso; batte le mani e appare Agrippa con una toga pulita.)

CALIGOLA

 – Hai fatto frugare in ogni stanza?

AGRIPPA

 – Sì, divino, nessun estraneo è penetrato nel palazzo.

CALIGOLA

 – Ci sono le guardie alle porte?

AGRIPPA

 – Sì, divino, entrano solo gli addetti al palazzo, e tutti vengono perquisiti.

CALIGOLA

 – La sorveglianza dev'essere continua e neppure per un attimo può essere rallentata.

AGRIPPA

 – Come sempre, divino.

CALIGOLA

 – Non come sempre, come oggi!

(indica la sua toga macchiata)

Sono stato avvertito, non lo vedi?

(entra Marco)

AGRIPPA

 – E' solo colpa del caso... non si può controllare il caso.

CALIGOLA

 – Neppure il volere degli dèi si può controllare.

(a Marco)

C'eri anche tu al sacrificio e sai com'è andata.

MARCO

 – Agrippa ha ragione, divino Cesare: il caso sfugge agli uomini e agli dèi.

CALIGOLA

 – E' accaduto durante il sacrificio, come fate a non vedere il presagio funesto?

MARCO

 – Io vedo soltanto un animale che muove la testa sanguinante verso di te, come per cercare protezione.

MARCO

 – Un semplice atto istintivo.

CALIGOLA

 – Un atto gravissimo se accade durante un sacrificio...

(lascia cadere la toga macchiata e indossa quella che gli porge Agrippa. Entra un servo che raccoglie la toga da terra ed esce)

 ... un avvertimento preciso sul tragico destino che mi attende.

MARCO

 – Non c'è niente di sicuro, invece. Anche se si trattasse di un segno, non ci è giunto chiaro ed è difficile interpretarlo.

CALIGOLA

 – Ma non è l'unica previsione infausta che ho ricevuto. Tu lo sai, Marco, che cosa mi ha predetto Silla, l'astrologo di corte.

MARCO

 – E vuoi prestar fede a quel vecchio rimbecillito?

CALIGOLA

 – Che cos'ha visto sul mio capo. Dillo pure, coraggio.

MARCO

 – Ha visto qualcosa che lui ha interpretato come la morte. Ma non si può credere a uno che non è mai riuscito ad azzeccare una previsione che s'è avverata.

CALIGOLA

 – E le sibille di Anzio? sei stato tu a consultarle per me... che cosa dicono le "Fortune"?

MARCO

 – Continuano a ripetere: "Guardati da Cassio.

CALIGOLA

 – Ma se l'ho fatto uccidere ieri, Cassio Longino, l'unico Cassio che poteva rappresentare un pericolo per me!

MARCO

 – Lo vedi, dunque, in quale conto tenere certe profezie?

CALIGOLA

 – Non sono gli oracoli a decidere la sorte degli uomini, ma le loro azioni, direbbe Seneca.

MARCO

 – Allora, tu sei al sicuro, divino.

CALIGOLA

 – E le mie colpe?

MARCO

 – Il bene che hai fatto le ha cancellate.

CALIGOLA

 – Perché continui a ingannarmi, Marco?

MARCO

 – Io esprimo soltanto la mia opinione.

CALIGOLA

 – L'adulazione non serve, anche se ci accarezza di dentro e fa piacere ascoltarla. Io cerco solo la verità. Parlami piuttosto dei cortei di protesta che corrono per tutta Roma, dei complotti che si organizzano contro il mio potere. E' là che guardano gli oracoli nei loro presagi di sventura.

MARCO

 – Questo dev'essere provato, divino.

CALIGOLA

 – Lo proveremo subito allora...

(batte le mani)

 ... avevo dato un incarico ad Agrippa... ma non c'è nessuno di là?!

(entrano Chèrea e due congiurati un po' distaccati da lui)

CHEREA

 – Non c'è più nessuno, Caio Cesare, né soldati, né servi... siamo rimasti soltanto noi.

CALIGOLA

 – E Agrippa dov'è?... doveva mandare offerte al mio tempio sul Palatino.

CHEREA

 – Non è più possibile, ormai: il tempio è stato distrutto.

CALIGOLA

 – E la mia statua?

CHEREA

 – Abbattuta.

MARCO

 – E' la collera di Giove perché hai cercato la divinizzazione. Rinuncia alle prerogative divine e cadrà ogni minaccia contro di te.

CALIGOLA

 – Io conosco un mezzo più sicuro, Marco: difendermi. Chiama i miei soldati, Chèrea, fai entrare la mia guardia fedele.

CHEREA

 – Non c'è più nessuno, ti ho detto. Qui ci siamo solo noi, e fuori il popolo di Roma che sta marciando verso il palazzo.

CALIGOLA

 – E tu, Chèrea...?

(riflette)

 ... ma il tuo nome non è Cassio?

CHEREA

 – Sì, Cesare.

CALIGOLA

 – Me n'ero dimenticato... i vaticini non mentono, dunque... tu sei qui per uccidermi?

CHEREA

 – A fare giustizia sono venuto.

(snuda la spada)

MARCO

(estrae un pugnale e copre col suo corpo quello di Caligola)

 – Indietro Chèrea!... nessuno toccherà Caio Cesare finché io sono vivo!

CHEREA

 – Risparmiati la vita, Marco, il tuo pugnale non basta a difendere un impero di delitti.

MARCO

 – Io non ti abbandono, Cesare.

CHEREA

 – Come hai deciso, allora...

(alza una mano verso i congiurati che accorrono a trafiggere Marco che cade)

Lo conoscevo troppo bene e non me la sentivo di colpirlo: era un adulatore sciocco, ma onesto.

CALIGOLA

(guarda il corpo di Marco)

 – Era soprattutto un amico fedele.

CHEREA

 – Era un tuo nemico, invece. Ti ha dato certezze invece di dubbi, ha sparso balsami dove avrebbe dovuto lasciare il tormento del fuoco.

CALIGOLA

 – Sei uscito anche tu dalla scuola di Seneca, vero? solo adesso posso calcolare tutto il male che ha fatto con la sua filosofia. Avrei dovuto farlo uccidere invece di scaldarmelo in seno.

CHEREA

 – Sei pronto, Caio Cesare?

CALIGOLA

 – Un momento. Dimmi prima perché vuoi uccidermi.

CHEREA

 – C'è bisogno di chiederlo? non hai insanguinato Roma abbastanza?

CALIGOLA

 – Ma non ho toccato i tuoi familiari, non ho ucciso tuo padre, né violentato le tue sorelle. Non è una vendetta, dunque, Che cosa può essere, allora? Ah, ho capito! forse ci sono: sono un tuo avversario politico, tu vuoi riportare la repubblica a Roma e io sono l'ostacolo principale sul tuo cammino.

CHEREA

 – Tutto sbagliato. La tua presenza al potere non fa che rafforzare nel popolo il desiderio di ritornare alla repubblica. Caio Cesare imperatore opera ogni giorno per la mia causa, e nessuno potrebbe essere più efficace di lui.

CALIGOLA

 – Allora si tratta di puro idealismo, un materiale pericoloso da maneggiare, Sono spacciato, non ci sono più dubbi. Forse potrei fare appello al tuo senso di lealtà: hai frequentato la mia casa da amico e io come tale ti ho trattato.

CHEREA

 – Ho voluto studiarti da vicino per essere certo che meritavi la morte.

CALIGOLA

 – Ma non puoi uccidermi oggi, siamo alla fine di gennaio... aspetta ancora un mese e vieni a colpirmi in senato, alle idi di marzo.

CHEREA

 – Per morire come Giulio Cesare? credi di esserne degno? neppure la data della morte puoi avere in comune con lui.

CALIGOLA

 – Vuoi uccidermi adesso, e manca Cesonia.

CHEREA

 – Credi che sia uno spettacolo? in ogni caso dovremo fare senza di lei: il tribuno Lupo, poco fa, le ha tagliata la gola.

CALIGOLA

 – E mia figlia Drusilla?

CHEREA

 – Morta anche lei, secondo il costume: è stata presa per i piedi e sbattuta contro la parete.

CALIGOLA

 – Come fa Ercole con i suoi figli nella tragedia di Seneca.

CHEREA

 – Sei pronto, Caio Cesare?

CALIGOLA

 – Aspetta. Sono l'imperatore e la dignità mi accompagna. Devo abbandonarla proprio nella solennità della morte?...

(si erge nella persona come se si trovasse su un palcoscenico)

 ... "Quale impressione, o Ateniesi, abbiano prodotto sui vostri animi i miei accusatori non lo so... "

CHEREA

 – Nemmeno adesso puoi dimenticare il teatro?

CALIGOLA

 – Niente può dare maggiore dignità a questo momento.

CHEREA

 – E hai scelto "L'apologia di Socrate"... vuoi sporcare le parole dell'uomo più giusto che sia mai esistito?

CALIGOLA

 – Concedimi almeno il suo ultimo appello. Vuoi essere ricordato come colui che mi ha soffocato sulla bocca le ultime parole di Socrate?!

CHEREA

 – E sia.

CALIGOLA

 – "E' già l'ora di andarsene, io a morire, voi a vivere. Chi di noi vada incontro a una sorte migliore, a tutti è ignoto, fuorché al dio."

CHEREA

 – Ci siamo, Caio Cesare... parola d'ordine?

CALIGOLA

 – Giove!

CHEREA

 – E allora che sia esaudito!

(vibra un colpo di spada a Caligola che cade, poi, rivolto al pubblico)

E' finita la vita di Caio Cesare, soprannominato Caligola. E' finita per Roma una buia notte di violenza e di sangue, ma per noi non è finito nulla, anzi, è incominciato un periodo convulso in cui dovremo difenderci anche da coloro che, pur odiando Caio Cesare, propugnano la sacralità del potere e intenderanno vendicarsi dei sacrileghi. Gli dèi però sanno che a giustiziare l'imperatore non siamo stati noi, ma, per mano nostra, l'intero popolo romano.

 

 

 

BUIO

 

 

 

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Un cinegiornale Luce del settembre 1961